Nell'estate del 1965 la drammatica rivolta dei neri a Watts: sei giorni di scontri, 34 morti
Di quei giorni resta oggi il sapore, pungente ed acre. Anzi: denso e
decisamente piccante, nonché - si spera assai presto - garantito
da un regolare brevetto commerciale. Poiché proprio questi - densa,
decisamente piccante e regolarmente depositata presso l'USPTO (United States
Patent and Trademark Office) - sono a quanto si dice i tratti caratterizzanti
della salsa per barbecue "Burn Baby, Burn" che, lanciata ai primi d'agosto
dalla Huey P. Newton Foundation, intende far da battistrada ad un'intera
linea di prodotti, tutti destinati a commemorare, il prossimo anno, la
fondazione del partito delle Pantere Nere. Momento centrale d'una campagna
che gli organizzatori assicurano essere rigorosamente "non-profit": la
presentazione - si presume agli inizi del 2006 - di "Spirit of ‘66", una
"clothing line" che, apertamente ispirata al cupo abbigliamento delle Pantere,
si propone di trasformare in un placido "trend" i piuttosto ruvidi gusti
del movimento che, in quegli anni di fuoco, forse più d'ogni altro
calamitò la paura (e la spietata vendetta) dell'America bianca.
"Burn baby, burn" fu lo slogan che, esattamente 40 anni fa, per sei
lunghi giorni, accompagnò la rivolta del ghetto di Watts, in quella
parte di Los Angeles che va sotto il nome di South Central. E Huey P. Newton
- morto assassinato nel 1989 - è forse il più importante
tra i militanti neri che, nell'ottobre del 1966, ad Oakland, sul lato povero
della baia di San Francisco, fondò il Black Panther Party (o Black
Panther Party for Autodefense, come significativamente recitava il nome
originale della formazione politica). Una fotografia divenuta celebre lo
ritrae - fucile nella mano sinistra e lancia nella mano destra - seduto,
come un antico re africano, su una sedia di vimini dall'enorme spalliera,
una sorta di trono installato sopra un grande tappeto di pelle di zebra.
Newton indossava, in quella storica immagine, un assai "guevariano" basco
nero. E neri - con la sola eccezione della camicia, appena visibile sotto
il giaccone di pelle erano anche tutti gli altri capi di vestiario. O,
se si preferisce, tutti gli altri elementi d'una uniforme che, presumibilmente,
anticipa oggi i tratti essenziali di "Spirit of ‘66". Ovvero: di quella
che i due creatori della Fondazione - la vedova di Huey, Fredrika, e David
Hilliard che di Huey fu compagno d'armi - sperano possa presto diventare
una moda con appeal multirazziale.
Ma il vero sapore, o meglio, il senso autentico della rivolta di Watts,
contiene ovviamente in sé, molti più ingredienti della salsa
di cui Hilliard rivendica l'invenzione, ed il cui lancio ha - prevedibilmente
- suscitato nei giorni scorsi una ridda di facili ironie. Perché
la paura di quei giorni è, forse, lontana abbastanza per poter riproporre
se stessa nell'assai conciliante forma di trovata culinaria, o di stilistica
rielaborazione "color blind", senza razza e senza colore (a parte, naturalmente
quello, apoliticamente rosso di "Burn Baby, Burn"). Ma le sue ragioni di
fondo restano, comunque, vicinissime a noi,. Anzi, restano immanenti. Più
ancora: sono parte essenziale d'una storia che continua. E che è,
a sua volta, un elemento incancellabile, vitale e quotidiano, seppur ancora
indefinito, della "nazione americana". Watts - oggi abitato prevalentemente
da ispanici - non fu, in realtà, la prima delle ribellioni esplose
in un ghetto nero. E molte altre, più sanguinose e prolungate -
inclusa quella che, nell'estate del '92, infiammò di nuovo le strade
di South Central - furono le sommosse che l'hanno poi, di fatto, seguita
negli anni. Ma Watts ed il suo grido di battaglia - brucia, ragazzo, brucia
- rimangono, per tutti, un fondamentale snodo storico, un punto d'arrivo
e, insieme, di partenza, un incrocio per il quale, necessariamente, continua
a passare ogni ricostruzione della vicenda delle relazioni razziali in
America.
Proviamo a vedere. I disordini scoppiarono la sera dell'11 agosto del
1965, per ragioni che ancor oggi, quattro decenni più tardi, appaiono
al tempo stesso confuse e chiarissime. Confuse perché fumosi erano
e rimangono, in termini di cronaca, i dettagli della violenza poliziesca
che, quella notte, fece seguito all'arresto per guida in stato d'ubriachezza
d'un giovane nero. E insieme chiarissime perché, quale che sia stata
la vera scintilla della rivolta - probabilmente la diffusione della falsa
notizia del pestaggio d'una ragazza incinta - inequivocabili furono (e
restano) le sue cause profonde: una rabbia incontenibile ed incurabile,
distruttiva perché alimentata da un senso di ineludibile, indistruttibile
ingiustizia. Solo una settimana prima, a Washington, il presidente Lyndon
Johnson aveva firmato il Voting Rights Act, storico punto d'arrivo d'una
autentica rivoluzione legislativa (un anno prima era stato approvato il
Civil Rights Act) che si proponeva di smantellare - e che, di fatto, finalmente
smantellava - il cosiddetto "Jim Crow legal system". Ossia: il complesso
di leggi statali attraverso le quali, per un secolo, negli stati del Sud
erano stati del tutto vanificati i principi solennemente sanciti - nel
13esimo, 14esimo e 15esimo emendamento della Costituzione - dopo la fine
della Guerra Civile e l'abolizione della schiavitù. Più esattamente:
il complesso di leggi che aveva trasfigurato nella turpe realtà
dell'apartheid quello che doveva essere un processo di liberazione. Il
Voting Rights Act aveva d'un colpo abbattuto tutti gli ostacoli - perlopiù
impossibili e talora persino irridenti test d'alfabetizzazione - che, nel
sud, avevano di fatto negato ai neri non solo il diritto di voto, ma il
diritto di sentirsi uomini ("I am a man", io sono un uomo, dicevano i cartelli
inalberati dai seguaci di Martin Luther King durante la lunga campagna
per i diritti civili negli Stati della vecchia Confederazione).
E proprio questo era ciò che le fiamme di Watts avevano all'improvviso
rivelato, mentre tutti gli occhi erano puntati a mezzogiorno: l'altra faccia
della questione nera, la realtà del ghetto urbano, i riflessi infuocati
- lontano dai luoghi della schiavitù e del "Jim Crow System" - dell'ingiustizia
che, come un'indelebile macchia, tormenta dai giorni della sua nascita
la democrazia americana. Watts esplodeva in giorni che per i neri d'America
dovevano essere - e che di fatto erano e restano, per molte e validissime
ragioni - di gloriosa celebrazione. Ed esplodeva nel cuore d'una delle
grandi metropoli, scoperchiando - in forma del tutto spontanea - la realtà
di un apartheid che, figlia di un più profondo tipo di discriminazione,
nessuna legge federale poteva, in effetti, cancellare all'istante. Dopo
sei giorni di battaglia (34 morti) e molte settimane d'occupazione militare
(garantiti dalla mobilitazione di oltre 14mila uomini della Guardia Nazionale)
la situazione, a Watts, tornò, come si usa dire, alla normalità.
Alla stessa "normalità" che, per quattro anni, nei bollori dell'estate,
vide nei ghetti neri di tutte le grandi metropoli americane - da Detroit,
a Chicago, da Harlem a Newark e, di nuovo, a Los Angeles - la sistematica
e cruenta esplosione di rivolte razziali. Poco più di un anno più
tardi, nel 1966 ad Oakland, sarebbero, per l'appunto, nate le Pantere Nere.
E le parole di Malcom X e del separatismo nero si sarebbero presto sovrapposte
- sullo sfondo della campagna contro la guerra in Vietnam - a quelle del
sogno d'integrazione ("I have a dream") che Luther King aveva lanciato
partendo dalla battaglia per i diritti civili nel Sud. Nel 1967, di fronte
ad un fenomeno che, sempre più, assomigliava ad una strisciante
guerra civile a bassa intensità, Lyndon Johnson aveva affidato ad
una commissione speciale presieduta dal governatore dell'Illinois, Otto
Kernel, il compito di indagare le cause del fenomeno. E tutt'altro che
consolanti erano state le conclusioni dell'indagine: a dispetto dei successi
del movimento per i diritti civili e della rivoluzione legislativa che
Johnson aveva con coraggio lanciato nel Sud (fino ad allora una riserva
di bianchissimi voti democratici), l'America appariva inesorabilmente avviata,
in assenza di iniziative ancor più estese, a diventare "una nazione
composta da due società separate, ineguali ed ostili…".
Che cosa resta, oggi, di quegli anni tragici e straordinari? Tutto
e nulla. Il nulla d'una salsa per barbecue e d'una linea d'abbigliamento.
Ed il tutto d'una situazione nella quale, gattopardescamente, ogni cosa
appare cambiata. Ogni cosa tranne, per l'appunto, quella incombente minaccia
d'endemica separatezza che fa sì che tutto resti, in effetti, come
prima. Due bei libri usciti nel corso degli anni '90 - "Two Nations" del
sociologo Andrew Hacker e "America in Black and White" di Stephan ed Abigail
Thernstrom - hanno con grande bravura descritto lo stato delle relazioni
razziali negli Usa, giungendo a conclusioni (di analisi e di prospettiva)
per molti aspetti contrapposte. Cupamente pessimistiche quelle del primo.
Radianti ottimismo quelle dei secondi. Basate soprattutto sulla realtà
della riproduzione del ghetto e sui dati sconfortanti della criminalità
e della "disintegrazione", a causa della persistente disuguaglianza, del
nucleo famigliare nero, quelle di Hacker. Fondate in particolare sulla
realtà della progressiva espansione d'un "ceto medio nero" - oggi
pari al 40 per cento del totale, contro il 6 per cento degli anni '60 e
in prospettiva destinato a colmare il baratro tra le "due nazioni" - quelle
dei coniugi Thernstrom. Ma su un punto i due libri non possono che coincidere.
Watts e le rivolte nere degli anni '60 hanno visto l'inizio di un "controprocesso"
che ha cambiato - e non in meglio - la geografia sociale e politica d'America.
Più in dettaglio: l'onda d'urto del terremoto che a Watts ha avuto
il suo epicentro, ha generato un'ondata di paura che ancora scuote l'anima
bianca degli Stati Uniti. Ed è su questa onda che ha viaggiato,
anzi, che continua a viaggiare, la cosiddetta "southern strategy" del Partito
Repubblicano.
Che cos'è (o è stata) la "southern strategy"? E' una
sorta di nostalgica garanzia, un'implicita ma chiarissima riassicurazione
alla "white America". E nulla l'illustra meglio delle cinque pesantissime
parole che, nel lanciare la sua campagna presidenziale nel 1980 nel Sud,
Ronald Reagan pronunciò in un comizio a Philadelphia. No, non la
Philadelphia della Pennsylvania, dove venne firmata la Costituzione, ma
la Philadelphia della Noshoba County, in Mississipi. Quella stessa Philadelphia
dove, nel 1964, il Ku Klux Klan aveva, con la complicità dell'intera
comunità bianca, massacrato tre attivisti per i diritti civili,
Andrew Goodman, Michael Schwerner e James Chaney. «I believe in states'
rights», disse Reagan di fronte a quella qualificatissima platea.
Io credo nei diritti degli Stati. Ossia: in quegli stessi diritti che le
leggi di Johnson avevano messo in mora…Accanto a lui, plaudente, assentiva
il congressista del Mississippi Trent Lott, in quei giorni rappresentante
della brava gente della Noshoba County, e più tardi destinato a
diventare capo della maggioranza repubblicana al Senato…
Giorni fa, di fronte all'assemblea della NAACP (National Association
for the Advancement of Colored People, una delle storiche organizzazioni
della battaglia per i diritti civili) il segretario del Gran Old Party,
Ken Mehlman, ha porto ai neri d'America le scuse ufficiali del partito
per quella strategia. Nessun dettaglio, ovviamente, e nessun nome per un
"pentimento" che non prevedeva, in realtà, né la piena confessione
del peccato, né penitenza alcuna. Soltanto un accenno di contrizione
che, nel quarantesimo anniversario del Voting Rights Act, è in effetti
risuonato come un'ennesima, stridente testimonianza d'ipocrisia. O forse
soltanto come l'ennesima riproposizione del peccato originale d'una rivoluzione
che 230 anni or sono, nel dichiarare "creati eguali" tutti gli uomini,
ha, nel contempo, preteso di salvare la macchina economica della schiavitù,
dichiarando "non uomini" tutti coloro che avevano la pelle nera. Una ferita
che non ha mai smesso di sanguinare.
Così come non hanno mai smesso di bruciare, in questi quaranta
anni, le fiamme di Watts. "Burn Baby, Burn", resta, per l'America del 2005,
molto più d'una salsa piccante.