DIECI ANNI FA, IL MOVIMENTO DELLA “PANTERA” CONTRO LA PRIVATIZZAZIONE DELL’UNIVERSITA’

Dieci anni fa, alla fine di dicembre del 1989, nasceva all’università di Palermo quello che tra gennaio e marzo 1990 sarebbe diventato il movimento della “Pantera”. Dopo quello del ’68 e del ’77, è stato il più partecipato movimento che ha interessato le università italiane.
Il movimento della “pantera” esplose come un fulmine a ciel sereno, dopo dieci anni in cui la mobilitazione sociale nel mondo universitario era stata assai scarsa. Inoltre proprio in quei mesi il crollo del muro di Berlino e la fine dei regimi “socialisti” in Europa orientale venivano presentati come la fine di qualsiasi mobilitazione sociale.
Fu perciò una sorpresa constatare che l’università italiana non era affatto tranquilla, e che gli studenti si ribellavano non solo per motivazioni “corporative”, per chiedere maggiori e migliori strutture per studiare, ma si ribellavano anche e soprattutto perché il loro studio avesse una diversa qualità ed una diversa finalità. Gli studenti che a migliaia occupavano le facoltà lo facevano infatti contro la cosiddetta “autonomia” dell’università, da loro vista come una privatizzazione dell’università, che avrebbe portato la ricerca scientifica svolta nelle università ad essere dominata dagli interessi privati delle aziende. La posta in gioco era quindi molto rilevante. Si confrontavano due concezioni diametralmente opposte di intendere l’università e la ricerca. Una, quella degli studenti, metteva al primo posto l’interesse pubblico, l’altra, quella del governo e di quasi tutto lo schieramento politico, aderiva invece al nuovo credo del “privato è bello”.
La cosiddetta “autonomia universitaria” veniva presentata dall’allora ministro Ruberti come la soluzione per dare maggiore efficienza all’università. Fin da subito queste proposte incontrarono una vivace opposizione, tanto che Ruberti spezzettò i suoi progetti di riforma in numerosi progetti di legge e decreti, per rendere più frammentaria e difficoltosa l’opposizione ad essi.
Gli studenti di Palermo capirono subito che l’autonomia avrebbe creato università di serie A e di serie B. Le prime avrebbero ricevuto cospicui finanziamenti privati e la qualità della ricerca e dell’insegnamento sarebbe stata alta, mentre le seconde, che sarebbero state soprattutto quelle del sud, avrebbero dovuto sopravvivere con pochi finanziamenti, ed essere così impossibilitate a fornire agli studenti attrezzature didattiche adeguate e laboratori di ricerca attrezzati. Sarebbe così stato leso il principio costituzionale dell’uguaglianza dei cittadini, ed il diritto di tutti di accedere ai più alti livelli di istruzione, diritto anch’esso costituzionalmente garantito.
Gli studenti di Palermo furono i primi a ribellarsi perché consapevoli che le condizioni già difficili degli atenei meridionali con l’autonomia si sarebbero aggravate. Ma ben presto il movimento si estese a tutta Italia. Le occupazioni durarono tre mesi, fino a marzo del 1990, poi si esaurirono lentamente. La delusione subentrò per non essere riusciti ad ottenere nulla di quanto si voleva. Gli studenti chiedevano il ritiro dei progetti di legge e dei decreti sull’autonomia universitaria, le dimissioni del ministro Ruberti, maggiore impegno per il diritto allo studio. Il mondo politico fu irremovibile a fare la benché minima concessione. Anche il Pci diede un sostegno agli studenti solo di facciata. Non a caso Ruberti era molto apprezzato dal Pci, e la lobby dei docenti universitari all’interno del Pci era favorevole ai suoi progetti. L’opposizione totale del mondo politico fu tra le cause principali dell’isolamento e poi della sconfitta del movimento.
Un altro motivo della sconfitta fu che il Governo poteva permettersi di lasciare le facoltà occupate per tre mesi, contando che prima o poi gli studenti si sarebbero stancati di non ottenere nulla ed avrebbero dovuto terminare la protesta e tornare a studiare, anche per timore di non perdere l’anno accademico, prospettiva che ad un certo punto venne ventilata dai Rettori più oltranzisti. Causa della sconfitta fu pertanto anche la forma di lotta dell’occupazione, praticamente l’unica a disposizione degli studenti, che aveva ben poca efficacia. Certo, trovarsi per la prima volta non più fruitori passivi dell’università ma protagonisti che decidevano come condurre l’occupazione (seminari, conferenze) fu un fatto di enorme crescita sociale e politica degli studenti. Ma non si era più nel ’68, quando la novità dell’occupazione come rottura dell’ordine sociale imponeva al potere o di sgombrarla con la polizia o di venire a patti, almeno su qualche cosa. E non si era nemmeno più nel ’77, quando l’isteria da compromesso storico fomentata da Dc e Pci dipingeva ogni università come un covo di terroristi da sgombrare manu militari. Nel ’90 le occupazione non erano più una minaccia all’ordine sociale e politico, ma erano qualcosa che poteva essere tollerato per lasciare sfogare la ribellione.
Infine, la sconfitta degli universitari fu dovuta al fatto che non riuscirono a trovare alleati nella società. La riflessione su cos’è la privatizzazione portò numerosi universitari ad opporsi ad essa non solo in ambito universitario ma anche più in generale ad essere contrari alla privatizzazione dei servizi pubblici. Ma i lavoratori che si battevano contro la privatizzazione dei servizi pubblici, per lo più organizzati nei piccoli sindacati di base come cobas o Rdb, non erano certo abbastanza numerosi da poter creare, insieme agli studenti, una “massa critica” in grado di impedire i processi di privatizzazione.
La sconfitta della “Pantera” ha determinato la politica universitaria degli ani successivi. I processi di privatizzazione sono progrediti, anzi la “filosofia” della privatizzazione è diventata dominante in quasi tutto il mondo politico. E’ restato comunque, di quel movimento, una crescita della coscienza civile e politica in molti giovani. Basti ricordare che l’impegno anzi razzista era fortemente sentito dagli universitari in rivolta, ed anche che la “Pantera” aveva avuto la capacità, quasi premonitrice, di vedere per la prima volta una minaccia in Berlusconi e nelle sue televisioni: mentre fino ad allora Berlusconi era considerato un imprenditore dedito solo a far soldi, la “Pantera” vide nei valori propagandati dalle sue reti una minaccia prima di tutto culturale e sociale.
La crescita civile e politica di tanti giovani sicuramente si è espressa poi in percorsi frammentati e tortuosi, stante la crisi della sinistra che ha avuto un ruolo disgregante, ma è stata comunque un fatto positivo se non altro perché per un momento ha dato l’illusione che “i bui anni ‘80” fossero finiti, certo non riuscendo a concretizzare questo proposito, ma almeno ha contribuito alla possibilità di nuove rivolte.

(da "Progetto Comunista", gennaio 2001)