Gino Vermicelli (1922-1998) è stato emigrante in Francia, comandante
partigiano, dirigente del PCI, tra i fondatori del “Manifesto”. A quasi
settant’ anni, nel risvolto di copertina del suo romanzo Viva Babeuf, scritto
per i giovani che non hanno vissuto la stagione partigiana, si presenta,
con semplicità ed umiltà, quasi come un vecchio filosofo
stoico: E’ nato a Novara nel 1922, non si sa quando e dove morirà,
per ora fa l’apicoltore.
In molti pomeriggi del sabato, dalla primavera all’autunno del 1997,
Vermicelli racconta ad amici e compagni e ad un registratore, la propria
vita. Il racconto, pur legato da un filo cronologico, non è sistematico
e vi è l’idea di strutturarlo, di integrarlo, di approfondirlo.
La malattia e la morte dell’autore, rapida ed improvvisa, quando ancora
la trascrizione non è finita, impediscono di portare a termine il
progetto. Chi ha curato l’intervista (Mauro Begozzi, Giovanni B. Margaroli,
Gianmaria Ottolini) decide di pubblicare il testo nella sua quasi integrità,
con alcune lievissime correzioni o integrazioni. Accanto alla testimonianza,
il libro raccoglie alcuni scritti tratti da varie riviste, alcune note
correlate al suo romanzo, racconti inediti, solo piccola parte della sua
ampia produzione. Bella la commossa prefazione dell’amico personale Valentino
Parlato, per anni direttore del “Manifesto”.
Il racconto ripercorre una vita difficile e ricca di fatti. La Novara
operaia degli anni ’20. Il padre, operaio alla manifattura Tosi, muore
nel 1929, lasciando moglie e due figli di tredici e sette anni. La migrazione
in Francia è dura, accompagnata dall‘astio della popolazione locale
verso gli “sporchi macheronì”. Il fratello, apprendista falegname,
unica fonte di reddito per la famiglia, muore tragicamente nel 1932. Il
racconto ci parla della Francia negli anni trenta, dello scontro fra sinistra
e destra, dei governi di Fronte popolare e dell’eco della guerra civile
spagnola visti da un giovanissimo che si avvicina all’antifascismo e scopre
il movimento comunista. Quindi l’ occupazione tedesca, le prime forme di
clandestinità e il ritorno in Italia dopo il 25 luglio 1943.
Le pagine sulla Resistenza costituiscono la parte centrale del testo
e anche dell’esperienza dell’ autore. Da queste emerge un racconto vivo
e spesso drammatico della guerra partigiana dell’Ossola, spiccano ritratti
di figure di primo piano (Cino Moscatelli, Aldo Aniasi o il futuro giornalista
sportivo Gianni Brera), o fatti drammatici come la battaglia di Megolo,
del 13 febbraio 1944, quella in cui muore il giovanissimo Gaspare Pajetta.
Il racconto qui assume toni epici: resta impressa l’ immagine di Vermicelli
e due suoi compagni su una parete di roccia che attendono la morte, certa,
da un fucile mitragliatore puntato verso di loro.
A distanza di oltre cinquant’anni, emergono anche i rapporti, non sempre
facili, tra brigate partigiane e tra l’aspetto militare e quello politico,
le scelte spesso frutto di contrasti, episodi, ancora non del tutto chiariti.
Su questo il racconto orale si intreccia con quello di Viva Babeuf
che gli è complementare e giunge sino alla Liberazione.
Anche il dopoguerra non è facile. La scelta per il lavoro a
tempo pieno nel partito è quasi naturale (Han bisogno di me), in
un periodo in cui militare in un partito voleva dire fare la fame. Il racconto
intreccia i vissuti di allora (su Togliatti, sui dirigenti, sulla rivoluzione,
in particolare sull’URSS, verso la quale mancava qualunque consapevolezza
critica) con i giudizi e le scelte posteriori, ma mantiene il “vissuto
soggettivo” di un militante comunista di allora che al partito dedica la
vita, in modo quasi totalizzante. L’attività è nel Fronte
della gioventù, nel supporto ad altre federazioni piemontesi, quindi
vi sono il trasferimento a Roma prima e poi il trasferimento in Sicilia.
Compaiono i nomi di Pompeo Colajanni, Emanuele Macaluso, Pio La Torre,
Placido Rizzotto, segretario della Camera del lavoro di Corleone, assassinato
dalla mafia (il cinema se ne è occupato solamente ora con un bel
film), nel difficile e complesso lavoro politico in un’area non toccata
dalla guerra partigiana e segnata drammaticamente dalla presenza mafiosa.
L’esperienza siciliana “resta nelle ossa” di Vermicelli, lo segna profondamente:
“Qui a Intra incontri un povero perché è un barbone o un
emarginato, là era la maggioranza della popolazione che faceva la
fame. E faceva la fame con estrema dignità, non estraniandosi, non
isolandosi” (p. 169).
Nel 1950 il rientro a Roma, la scuola quadri alle Frattocchie, il matrimonio,
il ritorno in Piemonte, questa volta a Verbania, perché “era scoperta”
una importante Camera del lavoro.
Il racconto qui corre più velocemente. Ne emergono, però,
la realtà sociale, non solo operaia, del verbanese, il drammatico
1956, anno in cui Vermicelli diviene segretario di federazione, la
mobilitazione popolare antifascista del 1960 (qui compare il nome del giovane
Fausto Bertinotti).
Nel 1961, dopo cinque anni, lascia la segreteria, con forte insofferenza
verso il regime “correntizio” che sta nascendo, e diventa responsabile
dell’ARCI che muove allora i suoi primi passi. Il 1968, l’esplodere di
un grande movimento giovanile, le discussioni sulla Cina, l’invasione della
Cecoslovacchia sono alla base della difficile scelta di lasciare il PCI
con il gruppo del Manifesto. Questa esperienza e quelle successive sono
descritte con maggiore rapidità, come meno significative di quelle
precedenti, anche se restano le amarezze e le ferite: “Se tu lasciavi il
Partito comunista perché non eri d’accordo, per mille motivi non
condividevi, diventavi immediatamente un nemico del Partito comunista.
Era una cosa assurda, ma era così”.
Poche pagine sull’occasione perduta negli anni Sessanta, quando il
PCI non riesce ad interloquire con i movimenti, sui limiti dei gruppi,
sul dramma sempre vivo del terrorismo.
Gli scritti successivi dimostrano la vastità di interessi di
questo autodidatta, la ricchezza di una vita colma di attività,
di impegno, di passione. Chi ha avuto, come me, la fortuna di conoscere
Gino Vermicelli e di ammirarne la dirittura morale, la modestia e la saggezza,
non può che essere grato a chi ha curato questo libro che ci permette
di venire a conoscenza di tanti aspetti dell’esistenza di un grande e coraggioso
militante politico.
Sergio Dalmasso