"A casa", il nuovo libro di Guido Viale, manca il bersaglio di un ripensamento
approfondito sulla stagione delle lotte degli anni Sessanta e Settanta,
un ripensamento che, dati i tempi che corrono, sarebbe non solo necessario
ma indispensabile...
Il caso ha voluto che terminassi la lettura del libro A casa
di Guido Viale poche ore prima che le reti televisive dessero il via alla
cosiddetta "maratona" elettorale. Apparentemente, questi due avvenimenti
non dovrebbero avere niente in comune: da una parte la narrazione di un
protagonista del '68 italiano, divenuto poi una delle figure "storiche"
di Lotta Continua (dietro ai suoi striscioni ho marciato anch'io per chilometri
di rabbia, speranza e desiderio), dall'altra, la tradizionale quanto vergognosa
messa in scena della politica parlamentare, fatta di numeri, percentuali,
politicanti di prima, seconda e terza fila, di dichiarazioni e, naturalmente,
di polemiche da avanspettacolo.
Invece, più trascorreva il tempo, più, paradossalmente,
coglievo i nessi che legavano il filo del racconto di Viale con la pantomima
recitata al di là dello schermo televisivo dai clown del circo elettorale.
L'affinità "elettiva" tra il libro – tra l'altro ricco di spunti,
riflessioni e considerazioni attente e puntuali, indipendentemente dal
mio riconoscermi o meno in esse – e l'irritante quanto osceno balletto
della nostrana classe politica, non era evidenziata solo dal fatto che
alcuni protagonisti della "stagione arrabbiata", cui aveva partecipato
in prima persona Viale stesso, fossero tra le comparse dello spettacolino
"ad usum populi" che le reti televisive avevano approntato per seguire
in tempo reale la pesca miracolosa che periodicamente stabilisce a chi
andrà la guida governativa del paese. No, non era solo il vedere,
comodamente assisi sulle poltrone, molti degli "arrabbiati" di allora conversare
amabilmente della "cosa pubblica" con avversari politici ai quali, un tempo,
promettevano forche "in pochi mesi", e non era nemmeno il constatare che
alcuni di loro, con trasformismi ideologici degni dei migliori illusionisti
circensi, ora militassero proprio in quei partiti che un tempo minacciavano;
c'era qualche cosa di più e, se possibile, di peggiore.
Ma procediamo con ordine.
A casa ha diverse virtù. Viale, infatti, senza cadere
nella retorica del "come eravamo", riesce in alcune parti del libro stesso
a raccontare, soprattutto a chi non c'era (e quindi, principalmente, ai
giovani e ai giovanissimi che di quella stagione nulla sanno o se sanno,
sanno poco e male – chi lo leggerà, però, non si aspetti
un "libro di storia": Viale si limita a "ricamare", su uno scenario storico
tenuto sullo sfondo, l'arazzo di alcuni suoi ricordi personali), cosa abbia
significato, in quegli anni, ribellarsi alla scuola, alla fabbrica, alla
famiglia. Illuminanti, in tal senso, alcune pagine del libro dalle quali
emerge chiaro e netto lo iato che separa, irrevocabilmente, il pre
e il post Sessantotto. Il primo, caratterizzato da baroni universitari
e da professori tanto potenti quanto idioti nelle meschinità di
cui erano capaci per garantirsi e conservarsi lo status che la società
affidava loro; da capi e capetti di fabbrica, violenti e reazionari quanto
patetici nel loro essere "servi dei servi" in una scala gerarchica al servizio
di un padrone disposto a regalare qualche avanzo dei propri lauti pasti,
in cambio di delazioni, servilismo e, soprattutto, anticomunismo; da famiglie
tronfie del ruolo, spesso poliziesco, che chiesa e stato affidavano loro
per il controllo dei figli ma, nel contempo, quasi sempre profondamente
intrise di quell'ipocrisia magistralmente sintetizzata nella locuzione
"tutto a posto e niente in ordine" che caratterizza la cultura familistica.
Il secondo (ossia, il post '68 e tutti gli anni Settanta a venire),
caratterizzato, invece, dal ribaltamento di quel senso comune che aveva
retto la società fino ad allora, attraverso la parola e la pratica
di un agire che, finalmente, rispondevano al desiderio dei soggetti e quindi,
di conseguenza, negavano diritto ai poteri (scuola/università, fabbrica,
famiglia, in primo luogo, ma poi, anche ospedali, esercito, cultura "ufficiale",
ecc.), che a quella parola e a quell'agire opponevano la violenza delle
istituzioni.
La memorialistica è ormai ricca di pagine che ripercorrono quegli
anni ma, a differenza di altri, il libro di Viale ha il pregio di non essere
mai ridondante o trionfalistico, anzi, a volte è fin troppo sotto
tono nel ricordare certi eventi che, per la loro dirompenza, invece, non
solo segnarono un'epoca ma marcarono dei punti – forse – di non ritorno
nel sentire comune.
Da sottolineare, pure, la corretta evidenziazione di come l'esperienza
della politica sia stata poi, per più di una generazione, totalizzante,
nel senso che aveva informato l'intera sfera esistenziale dei soggetti
che la praticavano, fino a tradursi nella parola d'ordine che la sintetizzava:
"il personale è politico".
Ma cosa c'entra tutto ciò con le elezioni politiche italiane
e le trasmissioni televisive che le riguardavano?
C'entra, e ora vediamo come.
Sapore acido della realtà
Ci sono alcuni aspetti del libro di Viale che risultano illuminanti
(purtroppo, siamo costretti a dirlo in senso negativo), per quelli che
sono stati gli esiti, non solo di quella stagione di lotte ma anche delle
generazioni che quelle lotte svilupparono - e che poi sono gli esiti che
nel corso dei due decenni successivi hanno permesso, nell'ordine: la criminalizzazione
del movimento, la sconfitta delle avanguardie di lotta nelle fabbriche
e nella società in genere, il revanchismo padronale e accademico,
la deriva individualistica dei soggetti (non importa se in senso reaganiano,
mistico o, semplicemente qualunquistico), l'affermazione della destra socialdemocratica
alla guida – anche se virtuale – del movimento operaio; la rimozione dalla
memoria collettiva di oltre vent'anni di conflitto sociale; la rilettura,
in chiave revisionistica, del medesimo periodo storico; la de-escalation
dei conflitti. E questo elenco potrebbe continuare a lungo fino ad arrivare
alla devastazione mediatica delle coscienze, all'egoismo elevato a virtù
o, specularmente, al buonismo opportunista (quello, per intenderci, che
lacrima per il Terzo Mondo e poi, dietro alla maschera dell'umanitarismo,
manda i propri caccia a bombardare l'Iraq e la Serbia), e, infine, al giustizialismo
che inneggia alla magistratura e alla polizia affinché facciano
piazza pulita di tutti i malfattori, siano essi politicanti e potenti della
cosiddetta "Prima Repubblica" (una delle creazioni mediatiche di maggior
successo attorno ai primi anni Novanta) o disperati dell'ultim'ora. Per
non parlare dell'apparizione delle "vecchie nuove" facce della politica-spettacolo.
Non che Viale, in un modo o nell'altro, non accenni o non descriva
l'oscenità di questo presente: anzi, soprattutto dove la sua narrazione
tocca l'oggi o il passato prossimo della sua vita (il lavoro, la dimensione
esistenziale, ecc.), la filigrana delle sue parole si compone proprio del
sapore acido della realtà che abbiamo tutti davanti agli occhi.
Il problema è che A casa manca, se così si può
dire, il bersaglio, ossia non dà volto e corpo a chi, volontariamente
o involontariamente, è stato tra gli agenti principali di questa
situazione. In poche parole, non c'è accenno alla responsabilità
diretta né del PCI né dei gruppi di quella che allora si
chiamava "sinistra extraparlamentare" (e di cui, Lotta Continua era certamente
una delle formazioni più significative), nella débacle subìta
dal movimento a partire dalla seconda metà degli anni Settanta.
È chiaro che lo "scacco matto" al movimento lo diedero lo Stato
e i suoi apparati (forze "dell'ordine" in testa ma anche servizi e stragisti),
ma certamente la capacità di resistenza antagonista venne fiaccata
in modo determinante sia dalla costante criminalizzazione che il Partito
Comunista – a partire dal 1968 ma con maggior vigore dal 1973 (Cile, compromesso
storico, ecc.) – attuò contro tutto ciò che si muovesse alla
sua sinistra, sia dall'incapacità dei gruppi dirigenti della sinistra
extraparlamentare ad interpretare la realtà nella quale si muovevano,
in primo luogo la propria stessa realtà: la composizione sociale
del movimento, la sua capacità di resistenza alla crescente violenza
dello Stato, la sua potenzialità (anche teorica), di far fronte
alle mutazioni in atto nello scenario politico (il PCI che si fa Stato,
da una parte e la pratica sempre più incidente delle formazioni
armate).
L'aver eluso allora queste analisi, fece sì che, in parallelo
alla ristrutturazione produttiva attuata dal padronato per riprendere in
mano il controllo della fabbrica (in stretta collaborazione con un sindacato
che in questo modo mirava a riprendere il controllo del movimento operaio),
il "fianco" del movimento si mostrasse sempre più "nudo", sempre
più scoperto, e quindi sempre più aggredibile, sia militarmente
che psicologicamente.
Eludere queste analisi oggi, a venti-venticinque anni e più
da quella stagione è ancora peggio, perché significa non
voler fare i conti con la Storia (o meglio: con la "propria storia" in
relazione alla Storia) e, dunque con gli errori di analisi e di prassi
che i protagonisti delle lotte di quegli anni – soprattutto di chi, a torto
a ragione, quelle lotte si trovò a dirigerle – fecero.
Ha ragione Viale quando lascia intendere che i tempi, ad un certo punto
(ossia, a partire dal '73-'74), cambiarono e che i gruppi (Lotta Continua
in testa, che non a caso fu la prima organizzazione a sciogliersi "ufficialmente"),
non furono più in grado di gestire la nuova fase.
Ma perché ciò avvenne? Perché i tempi erano cambiati?
Cosa aveva reso possibile l'arretramento e poi lo sfaldamento di un movimento
che, nonostante fosse sulla "difensiva", già, appunto, a partire
dai primi Settanta (è in quegli anni, infatti, che padronato, Stato
e servizi segreti, con tutte le armi a loro disposizione, passano al "contrattacco"
per impedire ad ogni costo, lo spostamento a sinistra – quello reale, non
quello prefigurato dalle sinistre ufficiali in Italia, utile tutt'al più
a consolidare il dominio del capitalismo, anche se con la maschera del
"volto umano", come si diceva in quel tempo – della società italiana),
riusciva in ogni caso a reggere, e spesso a gestire, il conflitto in tutti
i settori vitali del sistema?
Non rispondere sarebbe già di per sé un errore; rispondere,
come fa Viale, responsabilizzando le organizzazioni armate, Brigate Rosse
in testa, che in virtù di una supposta "combutta" delle rispettive
"direzioni strategiche" con i servizi segreti dello Stato, avrebbero lavorato
per distruggere, grazie al "terrorismo", il movimento, è non solo
un errore "grande come una casa" ma è il segno che non sono bastati
venti e passa anni per rileggere in modo adeguato la storia di una stagione
durante la quale alla volontà di cambiamento radicale dello "stato
di cose presente" non vennero offerte "gambe per camminare" ossia, quando
il gioco si fece "duro" (e duro si fece veramente: basti ricordare che
nel '75 entra in vigore la cosiddetta "legge Reale" che dà alle
forze dell'ordine quella licenza di uccidere che sarà l'impunita
causa della morte di moltissimi militanti della sinistra), non si trovò
niente di meglio che comandare il "rompete le righe!" (come fece LC) o,
tutt'al più (vedi il caso di Democrazia Proletaria) rientrare nella
bagarre parlamentare.
E già l'uso improprio che oggi Viale fa del termine "terrorismo"
in luogo di "lotta armata" (scelta semantica effettuata pressoché
da tutti i media, dal Secolo d'Italia a Liberazione, dall'Espresso
a Gente), la dice lunga sulla confusione che si produsse nel movimento,
ad opera delle dirigenze dei gruppi della sinistra extraparlamentare, quando
per quelle, si trattò di fare i conti (esorcizzandoli, rinnegandoli,
lanciando anatemi degni della miglior real politik), con segmenti
del movimento stesso che – a torto o a ragione, non è questo il
contesto per ragionarci sopra – furono conseguenti alle parole d'ordine
che i gruppi stessi lanciarono per anni nelle strade e nelle piazze.
Sostenere, a due decenni di distanza, che quegli slogan furono degli
errori, suona un po' troppo come "difesa d'ufficio" – una sorta di pentitismo
a posteriori del tipo: "forse abbiamo esagerato" o, peggio ancora, "...
ma noi non dicevamo sul serio!" – e come un distinguo rispetto,
appunto, a chi scelse la strada del conflitto armato con l'obbiettivo del
rivoluzionamento dello Stato – tanto più che il gruppo di cui Viale
fu uno dei "padri storici", cantava nel suo inno la "lotta di popolo armata"...
Non si tratta di essere acritici verso le organizzazioni combattenti
e verso gli innumerevoli errori da esse compiuti, ma, più seriamente,
si tratterebbe di affrontare finalmente una riflessione su una stagione
di lotte durissime, i cui esordi (se proprio vogliamo fissare una data
di riferimento che non siano le lotte, prima agrarie e poi operaie, del
dopoguerra e degli anni Cinquanta), sono rintracciabili nel famoso eccidio
ad opera della polizia di Scelba del luglio del '60 a Reggio Emilia (cui,
come è tristemente noto, con lo stesso obiettivo di frenare il movimento
operaio e sociale che stava crescendo, fecero via via seguito: Avola, Battipaglia,
piazza Fontana, l'Italicus, Bologna...).
Un'analisi necessaria
Viale lo sa: questa è la sua storia, vissuta, tra l'altro,
con funzioni di responsabilità. Eppure, in A casa, sembra
ignorare che quello sia stato il contesto con il quale il movimento e i
gruppi dovettero confrontarsi. Viale sembra anche dimenticare che, in quel
contesto, vi furono poi migliaia di uomini e di donne ("nati" in quel movimento
e in quei gruppi, non su Marte o in qualche ufficio dei servizi), che ritennero
giusto il passaggio "dalle armi della critica alla critica delle armi".
Tutto ciò (che non era altro che il portato di un progetto che
aveva nutrito l'immaginario di almeno due generazioni – l'Ottobre,
la Resistenza, la Lunga Marcia, Cuba e "il Che",
ecc.), non può essere liquidato con l'aggettivo – tanto scorretto
quanto infamante – di "terrorismo": da sempre, storicamente, pratica quest'ultima
"intimamente" fascista anche quando mossa da volontà di liberazione
(il terrorismo, colpisce indiscriminatamente avendo come obbiettivo il
terrore generalizzato; la lotta armata, al contrario, si pone l'obbiettivo
di colpire con la massima discriminazione andando a scegliere le sue vittime
tra i gangli vitali del sistema che vuole abbattere: e, indipendentemente
dal giudizio etico e politico che se ne vuol dare, non si può non
ammettere che, tra le due interpretazioni dello scontro estremo, c'è
una bella differenza – ciò non significa, naturalmente, ignorare
i molti quanto devastanti errori, teorici e pratici commessi, prima o poi,
da tutte le organizzazioni combattenti).
Mancare, però, un'analisi oggi così necessaria a contrastare
la "pseudostoria di stato"; reiterare, per convinzione non provata da nessun
elemento concreto, il leit motiv dell'eterodirezione delle organizzazioni
armate (che fu cavallo di battaglia del PCI quando identificava nella lotta
armata la "provocazione fascista operata con la collaborazione dei servizi
segreti ai danni della classe operaia e del suo partito"); parlare mestamente
di "sconfitta" del movimento senza quella analisi, indicata più
sopra, fondamentale per comprendere ragioni e cause di quanto è
successo; dimenticare la diserzione in massa che, nel giro di pochi anni,
svuotò le piazze di tutta quella parte di movimento (studentesco,
intellettuale, borghese e piccolo borghese "progressista") che, ritenendo
troppo impegnativo il livello dello scontro che si andava profilando, di
fronte alle innumerevoli contraddizioni di chi aveva parlato di "rivoluzione"
"qui e ora" ("tutto e subito!") ma che improvvisamente rinviava "a data
da definirsi" lo scoccare dell'ora x, abbandonò (abbandonammo)
la "mitica" classe operaia – di cui si era riempita (c'eravamo riempiti)
sino ad allora la bocca – a fare i conti da sola con la ristrutturazione,
i licenziamenti e con il tradimento del PCI (immortalato dalle vicende
PCI/FIAT della fine Settanta-primi Ottanta): ecco, tutto questo è
ciò che, in me, ha coniugato insieme la lettura del libro di Viale
e l'invereconda messa in scena dello spoglio elettorale.
Certo: anche grazie a quel movimento l'Italia era cambiata ma non nei
termini "di classe" che avevano lasciato intuire le bandiere rosse che
sventolavamo, gli slogan che urlavamo e i pugni chiusi che innalzavamo,
bensì nei termini che già a metà degli anni Settanta
Pier Paolo Pasolini aveva intuito quando affermò che la borghesia
rivoluzionava se stessa grazie ai suoi figli. Un bel rivoluzionamento,
non c'è che dire e il bailamme elettorale di maggio che ha coinvolto
"le menti migliori" di più di una generazione (molte delle quali
in prima linea nelle lotte degli anni Settanta) nella difesa di una coalizione
miserrima e impresentabile come quella dell'Ulivo (no, io no, almeno questo
no...), la dice più che lunga...
Non pensa, Viale, che sia giunto il momento di una riflessione finalmente
"scientifica", nel senso di una riflessione che sappia ripensare il passato
alla luce del presente? Un presente, tra l'altro, dove oltre centocinquanta
uomini e donne (che sbagliavano? non sbagliavano? continua a non essere
questo il contesto per domandarselo), compagni comunque della nostra stessa
passione, marciscono nelle galere di Stato, dove, a fargli compagnia, da
tempo c'è anche Adriano Sofri (come non ricordarlo, nonostante le
sue spregiudicate evoluzioni ideologiche degli ultimi anni?), chiamato
anch'egli, per il suo passato ruolo di leader di Lotta Continua, a rispondere
della presunzione di una generazione che aveva osato "chiedere l'impossibile"
(e poi anche di affermare che la strage del 12 dicembre '69 fosse "di stato";
che Pinelli era stato assassinato; che il neofascismo era pagato dal capitale
e protetto dai servizi con la complicità di uomini che sedevano
in parlamento; ecc.).
Riflessione collettiva
Dati gli esiti, comunque nefasti, di quella stagione (come definire,
il nuovo blocco clerico-fascista-neoliberista al potere cui si dovrebbe
contrapporre l'opposizione socialdemocratica-neoliberista, se non come
un esito nefasto?), non è forse giunto il momento di una riflessione
collettiva tra chi è stato protagonista di quella stagione e tra
chi, idealmente, ad essa si riferisce o vorrebbe riferirsi? Penso soprattutto
alle migliaia e migliaia di giovani "antagonisti" che affrontano, e probabilmente
dovranno affrontare sempre di più, la violenza e l'arroganza dello
Stato: non è forse indispensabile che il loro agire si annodi ai
fili spezzati del patrimonio di esperienze delle lotte di allora?
Non è un invito retorico, tutt'altro, ed è chiaro che,
inizialmente, sia proprio rivolto a Viale.
A lui comunque il merito, oltre a quelli segnalati in questa nota,
di non essere stato seduto anch'egli davanti alle telecamere in mezzo ai
commentatori (immaginiamo lautamente ricompensati) a dare "illuminanti"
interpretazioni del voto. E sia chiaro, questa non è una boutade:
tra i "commentatori", infatti, come abbiamo già scritto, c'erano
anche "ex-arrabbiati", compagni di battaglie, un tempo, dello stesso Viale
e oggi ricercati opinion leader al soldo degli stessi padroni cui,
in anni certamente più a rischio di acne giovanile, "l'avevano giurata".
Va da sé che, quindi, se i tempi sono questi, quello di Viale
è comunque un merito di grande valore.
Romano Giuffrida, "A rivista anarchica", N. 274, estate 2001