M. BERSANI e E. FRANCO (a cura di), Anticorpi, Einaudi, Torino, 1997, pp.182, £.18.000.
I racconti di Anticorpi, usciti oramai da diversi mesi, a mio parere colgono nel pieno le due tendenze principali e parallele della narrativa contemporanea, che in sostanza, per usare le efficaci categorie di Renato Barilli, si sdoppia in una prima soluzione improntata alla «presenza», con un Io che si rapporta al mondo, si sforza di assimilarlo, di viverlo con intensità, e invece un secondo percorso improntato all'«assenza», laddove, evidentemente, s'intende la mancanza di una coscienza che coaguli l'esperienza verso le sollecitazioni della realtà, e ciò che conta è semmai lo scorrere incondizionato di immagini mass-mediologiche, il «Blob» ironico, giocoso, basato per lo più sul montaggio accelerato di stereotipi preconfezionati. Quest'ultima ipotesi viene ampiamente avvalorata dal racconto di Matteo Galiazzo, Gestalt, che infatti non mette in campo alcuna coscienza effettiva; piuttosto si tratta di una entità non specificata che abita un corpo umano, quello di Luca, provando ad insinuarsi nella sua vita, nelle sue azioni, che tra l'altro sono gags strampalate e spiritose, aspettando il momento opportuno per uscire dalla sua immaterialità, e prendere consistenza nello stereotipo del licantropo. A questo punto, come non collegare queste metamorfosi e questo ritorno dell'intreccio, della storiella special effects, con i video-clips e ancor più con le sigle di MTV? Rimaniamo su questa «Generazione MTV» anche con Madrigale, il bel racconto di Tiziano Scarpa, che guarda caso è interamente costruito a sigle molto brevi, ognuna delle quali adatta a ospitare un frammento di storia sempre sovratono, sempre sovraccarico di una potente dose di mitologia quotidiana: in quei suoi contenitori Scarpa stipa un'ordinatissima accozzaglia di icone, di oggetti, di stereotipi, remixa il tutto in un imprevedibile «spot-pourri» di cianfrusaglie culturali, «... benzina senza piombo, mercurio di termometro, yogurt, vinavil...» (p.143), insomma, da tipico postmodernismo merceologico «alla MTV». Senza contare che il personaggio chiamato a gestire lo zapping oggettuale, concepito com'è dalla centrifuga di una lavatrice Rex, assomiglia a un umanoide meccanico, magari uscito da una spassosa toy-story.
Cambiano totalmente i toni con Federico Fubini, che con La rottura delle dighe d'Olanda e soprattutto Insetto fra gli insetti perviene a un buon grado di minimalismo, naturalmente gestito da una coscienza che, come esige la contemporaneità, è dotata di un sistema ricettivo altamente sensibile, portata perciò a un rapporto epifanico, a volte nauseato, con gli stimoli del mondo esterno. Lo stesso dicasi per Il juke-box di Giorgio Scianna, dove un minimalismo molto rigoroso, che procede per allusioni e per indicazioni essenziali, vede protagonista un bambino, Marco, sconcertato dalla crisi coniugale dei genitori: Marco si inventa il suo gioco personale, il juke-box, una specie di nascondimento e riapparizione inattesa, pur di infrangere la cappa di silenzio, di incomunicabilità, di vita sterile a cui la coppia si è ridotta. Ma sulla via del minimalismo, del ritorno alle cose stesse, i risultati più convincenti vengono senza dubbio da Cose, lo straordinario racconto di Simona Vinci. La percezione «altra» della giovane protagonista si rovescia con piglio morboso sulle cose, sugli oggetti, dapprima su quelli toccati il suo ex fidanzato, dunque connotati da un valore affettivo, ma successivamente sull'«estasi del materiale» - per dirla con Le Clezio - che le procurano i prodotti più neutri, anonimi, insignificanti, scelti rigorosamente tra lo sterminato mondo dell'artificialità industriale: plastica e fibre sintetiche procurano alla ragazza un «... piacere fine e se stesso ...» (p.169), una sessualità perverso-polimorfa innescata da una coscienza capace di riscattarne la banalità, il che significa esasperarne i particolari, i dettagli, con esiti del tutto equivalenti alle fotografie accese, kitsch, di un artista come Marco Samoré, fotografie che non per nulla consuonano con le vernici acriliche con cui la ragazza si cosparge il corpo, provocando bruciori, lesioni. Siamo di fronte a un'altra Lorenza e a un'altra Demon, e certamente la parentela della Vinci con Mozzi e la Santacroce aumenta di grado dopo che l'Io di Cose, saggiate le possibilità di impiego erotico di plastiche e affini, ovvero il «sex-appeal dell'inorganico», si lacera la pelle con gocce di acido cloridrico, la forma più estrema della sua «presenza» al mondo.
[Fabriano Fabbri]
M. DRAGO, L'amico del pazzo e altri racconti, Feltrinelli, Milano, 1998, pp.172, £.23.000.
Il libro d'esordio di Marco Drago conferma nel migliore dei modi il buon momento che sta attraversando la narrativa italiana, che sembra assumere una propria fisionomia, con caratteri ben precisi, perfino facili da riconoscere. Quali, in sostanza, i suoi tratti significativi? A giudicare da L'amico del pazzo, i cui racconti hanno il merito di coprire un'ampia rosa di casistiche, emerge subito l'attenzione della contemporaneità per le anomalie, indagate da Drago sul filo di una normalità solo presunta, apparente. Di là da questo velo di luoghi comuni, di abitudini consolidate, si agitano invece fantasmi di rivolta che non ci stanno a soccombere di fronte agli automatismi di tutti i giorni, e se non ci pensa un'adeguata valvola di sfogo a generare scintille di vita autentica, per lo più innescate dai comportamenti di un diverso, di un anomalo, allora interverranno i sistemi di allarme di qualche nevrosi a pareggiare i conti con una piattezza altrimenti disarmante. Nevrosi che appunto assumono i panni di qualche mania, di una cura esagerata per quisquilie trascurabili, secondo quella dedizione per il «dettaglio» insignificante, sempre ingigantito da una percezione alterata, che oramai è diventato un presupposto cardinale della narrativa contemporanea. Per conseguenza, ecco che i personaggi di Drago saranno afflitti da un disgusto verso un mondo troppo compresso nei suoi meccanismi sterili, che alla fine diviene indigesto, non assimilabile, da evitare con netto rifiuto, magari dedicandosi a una maggior consapevolezza delle proprie attività corporali, specialmente le più «basse», ovvero le più rifiutate dall'ordine comune. Le anomalie di Drago vanno a colpire un grigiore quotidiano patito da personaggi che questa loro «nausea» verso le cose la subiscono senza ammortizzatori, ma d'altronde si tratta di una nausea di serie di cui noi «ipocriti lettori» siamo portatori a piccole o grandi dosi, una nausea «domestica» che si svolge tra i muri di casa e s'incarica di instillare dubbi, malinconie, malesseri che comunque bastano ad aprire dimensioni «altre», margini di esistenza alternativa, più genuina. Nel primo racconto, Show, una coppia in crisi s'inventa una sorta di vita parallela e vive scenette di finzione mirate ad accendere nuovi stimoli; ma alla fine rimane vittima del suo perverso meccanismo di travestimenti, di proiezioni in esistenze immaginarie. Per sfuggire a una moglie appassita, il protagonista di Il numero inizia a lavorare come attore porno, e riattiva così la sua libido insospettata, pronta a sfogarsi sulle profferte di una ragazzina che ne ammira i nuovi exploits erotici. In Stampa locale ancora una coppia sull'orlo di una crisi di nervi, con un lui in preda alla sua nausea quotidiana («Ma le altre cose, invece, mi fanno l'effetto di aliene presenze nel mio minuscolo mondo conosciuto...», p.38), indaga e pedina i due «ex» rispettivi, sui quali riversano le aspettative di una vita avventurosa che i due non sono riusciti a costruire da sé. Ma in altri casi la via per ribadire una propria individualità, o almeno un diritto di auto-appartenenza, passa attraverso il rifiuto di entrare nell'ordine dei «normali»: a proclamare Per sempre io, titolo del racconto omonimo, è un perfetto «inetto» che preferisce rinserrarsi nel suo mondo di «indifferenza», nella sua stanzetta di minuzie adolescenziali, piuttosto che assecondare le richieste di chi lo vorrebbe sì maturo, ma anche soffocato nei pericolosi e aridi ingranaggi della produttività lavorativa e coniugale; in un certo senso, questa è la scelta di tutti i personaggi postmoderni, restare single perennemente, tramutarsi in «macchine celibi» inutili e antiproduttive, decisi a disperdere le loro energie per il piacere di erotizzare ogni frammento, ogni «dettaglio» della propria vita, e la sfida consiste appunto nel prelevarlo il più anonimo possibile, così che una percezione libera possa indicizzarlo con una visione inedita, inusuale, «con altri occhi». È un altro disadattato il protagonista di Papà, vittima della «...nevrosi ordinaria del mio tipo di vita...» (p.123), della sua nausea «domestica», che non riesce a liberarsi completamente del padre dispotico e perfino omicida, tanto da avvertire in sé le stesse pulsioni distruttive del genitore, la stessa scissione tra un piano di vita ordinaria e una di assassino potenziale. Ma la schizofrenia esce allo scoperto nel riuscitissimo racconto eponimo della raccolta, L'amico del pazzo: il protagonista vive in continuo stato di alterazione, il che lo porta a relazionarsi a un mondo che su di lui ha un effetto terrorizzante, dove le cose incombono con forza massiccia, prevaricante, siano esse una semplice libreria, le strade di una città, oppure la propria automobile, l'oggetto scontato che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni, che osservata «...da un angolo strano...» si fa «...davvero raccapricciante» (p.143). A dare il colpo di grazia a questa esistenza ipertesa ed estremamente ricettiva alla «...piattezza spettacolosa...» (p.154) che la circonda si aggiungono gli automatismi della routine, degli affari quotidiani, ed ecco che il labile equilibrio psichico di quel personaggio, diviso in due tra la propria identità effettiva e quella fittizia di un amico inventato altrettanto psicopatico, sfocia nel delitto gratuito, scaricando le sue paranoie, le sue tensioni in un atto incontrollabile, da follia ordinaria. [Fabriano Fabbri]
M. COVACICH, Anomalie, Mondadori, Milano, 1998, pp.197, £.24.000.
Già da qualche anno la narrativa italiana (e non) attinge a piene mani dalla cultura del viscerale, del liquido, del torbido, e se fin qui non vi è nulla di nuovo rispetto a tutta la tradizione del '900, ai nostri giovani scrittori bisogna riconoscere il merito di avere spinto all'estremo questa tendenza, confluita nel cosiddetto «Pulp» del primo Nove, di Niccolò Ammaniti e così via. Ma se i giovani «cannibali» rimangono fortemente ancorati a una narrativa bidimensionale, fumettistica, quasi un puro divertissement con personaggi, o meglio, con «figurine» prelevate dal mondo di una mass-mediologia (cinema, video-clips, videogames, cartoni animati) che non tollera incursioni psicologiche, i racconti di Covacich al contrario non rinunciano a invischiare il «viscerale» con altri fattori irrinunciabili della postmodernità, provvedendo cioè ad abbinare al magmatico, ai liquami fisiologici un'adeguata dose di pulsioni del «profondo» reali, non solo effettistiche. Detto diversamente, in Covacich le anomalie a cui allude il titolo della raccolta sono sempre giustificate da un interesse di ordine psicanalitico, atte a «svelare gli altarini», a mettere in luce meccanismi di perversione che sottendono all'attrazione-repulsione di tutto quel dilagare di smembramenti, di elementi organici, sempre connessi a qualche complicazione erotica che in misura minore o maggiore ci riguarda un po' tutti. Si parla di noi, in quelle righe di «anomalie», e naturalmente questo ammiccamento al diverso, all'iperbole, tipico di tutta la narrativa contemporanea, risponde all'esigenza di snidare ciò che siamo con una terapia d'urto che sia davvero efficace: per farci gettare la maschera servono appunto questi casi limite, ben lontani dalla normalità, anzi, mirati a sfilacciarla, a farla fuori. Ecco che un racconto come Notte viene ad assumere un valore esemplare: Chiara e Paola si ritrovano a contendersi il corpo esanime di Claudio, padre della prima e amante della seconda, il che rimanda subito a un evidente gelosia di tipo incestuoso, a un fifty-fifty tragicomico, dato che quella salma trasbordante di secrezioni viene vestita secondo i gusti dissonanti delle due donne. Un piano di normalità esagerata, perfino psicotica, e un altro di efferatezza irrefrenabile coesistono nei giovani casa e chiesa di Senza piombo, che infatti vivono in un universo di bambagia esagerata, fatta di auto fiammanti, telefoni cellulari ultimo tipo, di abbronzatura artificiale e vibrosnell, ma a un livello maniacale e costrittivo sul tipo di un Bret Easton-Ellis, tanto da scaricarsi con ferocia su una vittima innocente, un extracomunitario colpevole di aver contravvenuto alle ferree regole di ecologia che quel manipolo di ipocriti si era imposto. Ritorna la complicazione erotica in Ciechi, con protagonista Sergio, professore d'italiano, e Michela, una sua studentessa non-vedente, che, forse complessata dal suo handicap, di quella relazione non ne vuole più sapere; a Sergio, allora, non rimane che mettersi sullo stesso piano della ragazza, diventare cieco a sua volta, paradossalmente «...sì, vedere in altro modo» (p.102) un mondo troppo sterile, a costo di infliggersi sofferenze inaudite, fisiche e sociali, dal momento che l'ordine dei «normali» non può approvare quella autotortura degenerata in cancrena. Su due casi di anormalità manifesta sono imperniati La professoressa e L'ebefrenico; nel primo una giovane donna ossessionata da un forte desiderio di maternità scoppia in crisi di isteria violenta, distruttiva, accompagnate da una frenetica disponibilità al sesso di cui sono in molti ad approfittare; nel secondo racconto ancora il sesso la fa da protagonista, con Gildo, il solito ragazzino «anomalo» allontanato dalla classe per la sua continua eccitazione erettiva, che non fa che masturbarsi di fronte alla giovane insegnante di matematica che gli dà lezione di sostegno: tra ripugnanza e sgomento la donna sopporta il suo difficile compito, ma intanto si sente terribilmente attratta da quella spudorata e schietta offerta sessuale, di odori, di liquidi difficili da respingere. In Pietro e Paolo Covacich questa volta si misura con l'«anomalia» corporale di due gemelli siamesi, uniti da un corpo unico ma divisi da due caratteri opposti, Paolo pacato e contemplativo, Pietro impulsivo e irrequieto: a rendere ancor più difficile il loro rapporto di convivenza forzata ci si mette il risveglio delle pulsioni sessuali, frenate da uno e accelerate dall'altro, Ego contro Es, finché Pietro, stremato dall'impossibilità di dar sfogo ai suoi istinti, si spegne tra spasmi e convulsioni. Un'ennesima impossibilità di realizzazione erotica spinge il cecchino di Un altro inizio a massacrare le donne del suo desiderio, donne di cui si immagina le movenze, i comportamenti sessuali che a lui sono preclusi: non può disporre sessualmente dei loro corpi, ma almeno può disporre delle loro vite, può stroncarle, mutilarle, sfogare su di loro la sua impotenza, secondo quel rituale del delitto «gratuito» che è uno dei tratti più diffusi della narrativa novecentesca. [Fabriano Fabbri]
G. MOZZI, Il male naturale, Mondadori, Milano, 1998, pp. 222, £.24.000.
Una narrativa minimalista, con storie «fatte di niente» e imperniata su situazioni grigie e insignificanti, si pone come una delle possibili alternative della narrativa contemporanea, e in un contesto del genere non è certo fortuito il rilancio di Raymond Carver, lo scrittore statunitense che oramai è divenuto il vero punto di riferimento di questo filone che trova sempre più affiliati tra i giovani scrittori. Naturalmente, la misura congeniale a questo tipo di scrittura rimane quella del racconto, del taglio breve che ha il vantaggio di impedire un eccesso di analisi descrittiva; il Minimalismo, lo prova la parola stessa, impone invece un trattamento a «bassa definizione» in bilico tra il dire e il non dire, applicato senza distinzione a oggetti e personaggi di tutti i giorni.
Che cosa rappresentino i racconti di quest'ultimo libro di Mozzi lo dice l'autore stesso in Finale: riguardano tutti la stessa storia, la perdita di una persona amata, un distacco affettivo che generano scompensi, squilibri, «anomalie», per dirla con Covacich. In effetti i protagonisti di queste storie «minimali» sembrano un unico personaggio che assume volti diversi, in abiti maschili e femminili, e tutto questo in sintonia con una cultura del soft che non ammette psicologie a tutto tondo, granitiche, impenetrabili. In fondo, l'osmosi che sottende ai personaggi di Mozzi, rendendo «deboli», morbidi i loro comportamenti, si può riassumere sotto la variabile «X», che appunto sta a significarne la fluidità, l'imprendibilità, quasi al motto di Walt Whitman «Mi contraddico? Ebbene sì, mi contraddico. Sono ampio, contengo moltitudini». Così la protagonista di Vite, Ruota, il cui nome fornisce una specie di modello, di «DNA» di tutti i personaggi di Mozzi, e cioè: Ruota come moto continuo di stati d'animo e di percezioni «altre», come infatti avviene nel racconto, dove una ragazzina ai suoi primi desideri sessuali viene sopraffatta da un desiderio inaspettato, quasi delirante. Ma «ruota» anche come congegno che gira chiuso su se stesso, obbligato a una circolarità autistica e celibe, senza possibilità di pervenire a un contatto esterno, e che in Ruota si traduce in una resistenza inibitoria e costrittiva nei confronti di quelle inusuali sensazioni soverchianti: ha paura di darsi alla vita, ma il suo lato «X», quello libidico, indefinibile, preme dal «basso», la stravolge. «Ruota» attorno a se stessa anche la protagonista di Bella, Dalia, costretta a rinserrarsi in un narcisismo cronico per colpa di una invalidità che se da una parte le impedisce la percezione del proprio corpo, dall'altra acuisce a dismisura il suo desiderio erotico, il desiderio di essere toccata, penetrata, di supplire con il sesso alle sensazioni che la vita non le ha concesso, ma si tratta di un congiungimento difficile, praticamente impossibile. È di tipo psicologico, invece, il blocco di Giulio (Bianca), incapace di liberarsi del fantasma della sua ex moglie fino al punto di farne un'ossessione, una «nausea» che gli preclude altri rapporti, puntualmente ribadita dal perentorio rifiuto di aprirsi al mondo, di «... sentire tutta la sua differenza, la sua distanza, la sua separazione. Io sono io» (p.91.); sentenza che potrebbe ripetere anche il Giulio di Super Nivem, personaggio contraddittorio pienamente «X», anch'egli ossessionato dai suoi fantasmi erotici, portato a vivere con frustrazione la sua diversità, a infliggersi un senso di colpa che nuovamente, lo ripetiamo, consiste nel non concedersi al mondo. A questo proposito, contrariamente all'allusione del titolo, il bellissimo Aperture sottolinea l'ennesima chiusura verso la realtà di Lorenza, altra punitrice di se stessa del repertorio di Mozzi, dedita alla tortura amorevole del proprio corpo che la ragazza copre di tagli, come a cospargerlo di innumerevoli vagine da riempire con chicchi di riso: così facendo Lorenza si vota a una sessualità antiproduttiva, perfettamente inutile, o meglio, perverso-polimorfa, capace di appropriarsi di qualsiasi circostanza oggettuale, anche la più «minimale», per ricavarsi un piacere libero, espanso. Ma anche quando una ragazza come Rama, la giovane protagonista di Pugni!, sente il momento di relazionarsi al mondo intravedendo l'eccitante prospettiva della sua prima storia d'amore, lo zoccolo duro delle circostanze si materializza a porre un diaframma tra lei e il suo sogno: come da miglior Minimalismo, una serie di legami oggettuali svela a Rama che Paolo in realtà è omosessuale, e allora la sua «prima volta» Rama se la può solamente metaforizzare in un delirio onirico, nella perdita di sangue dal suo organo genitale in seguito a un combattimento sportivo. [Fabriano Fabbri]
I. SANTACROCE, Luminal, Feltrinelli, Milano, 1998, pp. 100, £.20.000.
La mass-mediologia entra a pieno titolo nell'ultimo libro della Santacroce, come del resto era già accaduto nei precedenti Fluo e Destroy, e se allarghiamo il cerchio anche al Nove di Superwoobinda e a certi aspetti di Tiziano Scarpa, di fatto si viene a formare una generazione «MTV» che ha i suoi punti di forza nell'accelerazione, nella rapidità, nell'immediatezza delle immagini, intese anche come icone, come stereotipo vero e proprio traslocato dalla cultura della pubblicità, del fumetto, del rock. Ora, lo spazio di manovra della Santacroce sembra provenire pari pari dal mondo musicale, tanto che la sua scrittura ne insegue il ritmo, l'immaterialità, si adatta a un fluire che forse rischia di prevaricare sui contenuti, che dal canto loro, alleggeriti da tutto quello scorrere di flashes sparati a ruota libera, durano solo qualche riga, giusto il tempo di addensarsi in una nebulosa di significazione, a tessere uno scampolo di racconto, un briciolo di trama. «Questa è la storia di Demon e Davi» è uno dei tanti refrains di questo romanzo, retto da un traliccio molto esile di frasi che si ripetono a suon di Rew e Play, come se in luogo di una pagina scritta ci trovassimo di fronte a un congegno elettronico, a un CD, e d'altronde la voce narrante si deve modulare sul medesimo andamento da campionatura elettronica, deve farsi anch'essa acida e artificiale, monotonale come le scene che veicola (a volte monotone, bisogna dirlo): in effetti, per dare il meglio di sé la dinamica di Luminal andrebbe eseguita come una performance, più che arrangiata sulla pagina scritta. Insomma, cercare i motivi d'intreccio di questo romanzo non è cosa facile, e forse, piuttosto, vale la pena di seguirne la cadenza, adattarsi a quell'andatura sincopata da video-clip, fermo restando che, mancando una struttura forte, la Santacroce sente spesso l'utilità di avvalersi di un'adeguata soundtrack, da Bowie agli Oasis e, ancora meglio, ai Prodigy di «Smack my bitch up»: il gruppo inglese è il perfetto equivalente musicale di Luminal, e in nome di un tuffo nel viscerale più perverso e sadico gli altri consanguinei della Santacroce saranno i vari Chemical Brothers, Smashing Pumkins, Prozac+, ma anche la narrativa acida di Irvine Welsh, i cartoons dei Simpson e Beavis & Butt-head. Beninteso, benché effervescenti e diafane, quelle situazioni limite (prostituzione, fist-fucking, trip allucinogeni) devono essere vissute da due personaggi che, pur in carne ed ossa, possiedono i requisiti necessari, gli strumenti adatti ad appropriarsi di tutta quell'orgia di immaterialità; si tratta di Demon e Davy, due ragazze legate da una relazione omoerotica, che come vuole la narrativa contemporanea sono ovviamente «X», indeterminate, indistinte, disponibili a tutto pur di accaparrarsi un brandello di vita sì off limits, ma almeno autentica, magari per contraccolpo rispetto al kitsch artificioso di cui le due si contornano. Demon e Davy sono maniera al massimo grado, sono perfettamente consapevoli di essere «Barbie gemelle», stereotipi di plastica dagli atteggiamenti altamente affettati, molto simili alle movenze da bambolina-mannequin che compaiono, ad esempio, negli spettacoli dei Motus; ma al tempo stesso Demon, la voce narrante, per quanto dilatato ed etereo, è pur sempre un Io con un nastro sul passato, un «Rew» sul difficile rapporto con la madre, da riavvolgere e confessare; e ancora, è un Io che si riappropria della sua dimensione corporale collezionando le fotografie della sua nutrita serie di autolesioni (spilli conficcati nella pelle, lividi provocati da spigoli...). E allora, come non pensare a Lorenza, la protagonista di Apertura, il racconto di Giulio Mozzi? Che dire poi dell'autoflagellatrice di Cose, uscita a sua volta dalla penna di Simona Vinci? Segno, questo, che le idee procedono veramente di pari passo. [Fabriano Fabbri]
Tiziano Scarpa
Tiziano Scarpa rappresenta il coté alto, dotto, nobile del pulp, anche se la sua narrativa è pur sempre intrisa dei materiali più diversi, riconducibili, per esempio nei racconti di Amore(r), ad una duplice componente: da un lato a uno sguardo quasi pittorico che forse discende da precipui interessi verso le arti visive, e dall'altro, in particolare, a un'esigenza classificatoria che è invece direttamente connessa alla dialettica gioco/utopia rintracciabile in altri famosi «catalogatori» (Borges, Calvino, Perec, addirittura Dante).Aldo Nove
Difficile sottrarsi, leggendo i racconti di Aldo Nove, alla tentazione di
inquadrarli come esempio di pop art letteraria con l'aggiunta di una
condizione postmoderna osservabile attraverso il rapporto più di amore
che di odio verso gli oggetti di una rappresentazione in apparenza quasi
immediata, fluidificata, estemporanea tanto quanto l'object trouvé o la scrittura automatica. In realtà ciò che appare spontaneo, naïf, effimero o peggio ancora (come qualche critico superficiale ha voluto rimarcare) distratto, incolto, popolaresco, è invece frutto di un'attenzione calibratissima, maniacale, liricheggiante verso i meccanismi della
scrittura: ma a differenza di Scarpa, Nove preferisce sottrarre la
letterarietà, se si eccettua l'eco dei suoi padri spirituali (il Balestrini
narratore, per esempio, e comunque un certo percorso avanguardista intorno al Gruppo 63); al posto dello «stile» tradizionalmente
inteso, Nove aggiunge, opportunamente filtrati, i retaggi multiculturali che
la comunicazione planetaria è in grado oggigiorno di offrire a tutti i
livelli: l'opera di Nove infatti non solo si struttura come uno zapping
televisivo, ma arriva a interiorizzare le regole del «flusso» e a far
proprie le tematiche interne a palinsesti, pubblicità, programmi,
promozioni. La forma e i contenuti, se è ancora lecito operare
distinzioni di sorta, non mescolano soltanto il riflesso al contempo
ironizzato, amato, odiato, idolatrato di tutto ciò che senza pudore la
società mediatizzata esibisce (per lui dal porno al rosa,
da Ghezzi a Paola & Chiara), ma sono un pretesto per ragionare su
altro: il materiale in apparenza grezzo è infatti il simbolo di un dolore
(e di un sogno) esistenziale che rimanda a una critica globale al sistema
capitalistico, al recupero dei valori affettivi (l'amore, l'amicizia),
all'autoanalisi di taglio sociopsicanalitico (eros e violenza in
abbondanza, forse per esorcizzare il binomio «malefico»).
Aldo Nove (Varese, 1967), vive e lavora a Milano. Laureato in Lettere con una tesi
sul filosofo Antonio Labriola, dopo significativi trascorsi poetici col
nome di Antonello Satta Centanin, esordisce come narratore pubblicando la
raccolta di racconti Woobinda (Castelvecchi, 1996); dopo l'inatteso
successo di pubblico e di critica continua a scrivere racconti per
riviste, quotidiani e antologie (Gioventù cannibale, Einaudi 1996), oltre a recensioni di musica, letteratura, arti del presente. Puerto Plata Market (Einaudi 1998) è il suo primo romanzo. Ha di recente curato l'edizione italiana di L'agenda di Mr Bean (Einaudi 1998) e una nuova
versione di Superwoobinda (Einaudi 1998), mentre per l'anno prossimo è atteso il suo nuovo romanzo intitolato Bio. [Guido Michelone]
Piccola bibliografia sul Pulp
- AA.VV., Now generation, in «Pulp», 5, maggio 1996.
- AA.VV., Scrittori cannibali: chi sono, chi li pubblica, chi li
critica, in «Letture», 534, febbraio 1997.
- Nello Ajello, Se una notte d'inverno un Tarantino... Arriva il «Pulp»
italiano, in «L'Espresso», 21 marzo 1996.
- Nanni Balestrini, Renato Barilli (a cura di), Narrative invaders!
Panorama critico e pratico, in «La Bestia», 1, estate 1997.
- Mauro Baudino, La nuova scrittura? Acqua e sapone, in «La Stampa», 16 maggio 1998.
- Angiola Codacci-Pisanelli, Foto di gruppo con atlante. Geografia dei
nuovi narratori, in «L'Espresso», 23 aprile 1998.
- Luca Gervasutti, Dannati & sognatori. Guida alla nuova narrativa
italiana, Campanotto Editore, Udine 1998.
- Angelo Guglielmi, Uffa, la solita generazione, in «L'Espresso», 14
agosto 1997.
- Filippo La Porta, La nuova narrativa italiana. Travestimenti e stili di
fine secolo, Bollati Boringhieri, Torino 1995.
- Filippo La Porta, Scrittori. La mappa delle storie, in «Musica! Rock e
altro», 22 gennaio 1998.
- Giampiero Mughini, Giovani cannibali alla prova del Nove. Geografia e
storia della generazione post-tutto, in «Panorama», 22 gennaio 1998.
- Fulvio Pezzarossa, C'era una volta il pulp. Corpo e leteratura nella tradizione italiana, Bologna, Clueb, 1999.
- M. Sinibaldi, Pulp. La letteratura nell'era della simultaneità, Roma, Donzelli, 1997.
Bibliografia degli scrittori pulp
- AA.VV., Gioventù cannibale, Einaudi, Torino 1996.
- Niccolò Ammaniti, Fango, Mondadori, Milano 1996.
- Silvia Ballestra, Il compleanno dell'iguana, Mondadori, Milano 1991.
- Enrico Brizzi, Bastogne, Baldini e Castoldi, Milano 1996.
- Giuseppe Caliceti, Fonderia Italghisa, Marsilio, Venezia 1995.
- Rossana Campo, Il pieno di super, Feltrinelli, Milano 1993.
- Giuseppe Culicchia, Tutti giù per terra, Garzanti, Milano 1994.
- Giuseppe Culicchia, Paso doble, Garzanti, Milano 1995.
- Andrea Demarchi, Sandrino e il canto celestiale di Robert Plant,
Mondadori, Milano 1996.
- Matteo Galiazzo, Una particolare forma di anestesia chiamata morte,
Einaudi, Torino 1997.
- Francesca Mazzuccato, Hot line, Einaudi, Torino 1996.
- Alessandra Montrucchio, Ondate di calore, Marsilio, Venezia 1996.
- Giulio Mozzi, La felicità terrena, Einaudi, Torino 1996.
- Giulio Mozzi, Il male naturale, Mondadori, Milano 1998.
- Aldo Nove, Woobinda, Castelvecchi, Roma 1996.
- Aldo Nove, Puerto Plata Market, Einaudi, Torino 1998.
- Marco Philophat, Costretti a sanguinare, Shake, Milano 1997.
- Stefano Piccolo, Storie di primogeniti e di figli unici,
Feltrinelli, Milano 1996.
- Andrea G. Pinketts, Il conto dell'ultima cena, Mondadori, Milano 1998.
- Luca Ragagnin, Anime pixel, Fermenti, Roma 1998.
- Isabella Santacroce, Fluo, Castelvecchi, Roma 1995.
- Isabella Santacroce, Destroy, Feltrinelli, Milano 1996.
- Tiziano Scarpa, Occhi sulla graticola, Einaudi, Torino 1996.
- Tiziano Scarpa, Amore(r), Einaudi, Torino 1998.
- Simona Vinci, Dei bambini non si sa niente, Einaudi, Torino 1997.
- Chiara Zocchi, Olga, Garzanti, Milano 1996.