Stefania Filippi
I Segni d'oro di Domenico Starnone.
Il terzo romanzo di Starnone, dal titolo Segni d'oro, è forse quello che merita più attenzione per la particolare organizzazione strutturale della materia e degli episodi narrativi, e per il complesso sistema di citazioni che è il fondamento dell'economia romanzesca. Tutto lo svolgimento del racconto appare pervaso di citazioni di varia origine - colta e popolare, sacra e profana -, e di varia natura - letteraria, soprattutto, ma anche musicale e cinematografica -, per cui esse provengono da ambiti e generi diversi e anche molto distanti tra loro. Infatti, esse appartengono al patrimonio della lirica amorosa trecentesca, si intrecciano a suggestioni di romanzi picareschi e d'avventure, o a ricordi di letture diverse; talvolta si congiungono al patrimonio della poesia popolare, si compongono in reminiscenze dantesche, petrarchesche o bibliche, e spesso derivano dall'immaginario cinematografico e dalla narrativa a fumetti, intersecandosi anche con presenze musicali colte e leggere. Entro un cosÏ vasto orizzonte culturale, è possibile classificare il materiale letterario ed extraletterario che l'autore impiega disseminando le citazioni nella trama romanzesca, come pure non è difficile registrare le varie modalità di appropriazione di tale materiale nel corso del racconto. Le citazioni possono trovarsi, infatti, come citazioni testuali, riprese, rielaborate, ricorrenti in più punti del racconto con funzione caratterizzante; in altri casi esse compaiono appena dissimulate entro la struttura di brevi episodi narrativi, oppure ancora congiunte l'una con l'altra, e anche assunte a principio di un puro gioco di travestimenti letterari. Inoltre, è facile rintracciarne la precisa provenienza, ma è forse più utile segnalarne la funzione strutturante all'interno dei singoli brani, e la loro connessione, mirante alla creazione di un sistema narrativo più complesso, dato che in questa opera il gusto per la citazione non è mai fine a se stesso, ma si fa fondamento dell'invenzione romanzesca, e anche della sperimentazione linguistica e verbale.
All'interno di una trama apparentemente semplice, Segni d'oro si propone cosÏ come un racconto tutto pervaso dall'esperienza e dal piacere della ricerca letteraria, in cui sembra realizzarsi l'estrema attualizzazione del mito moderno dell'esteta. In questo romanzo, questa figura ricorrente della narrativa europea dell'ultimo secolo si incarna in un protagonista senza nome, dall'esistenza priva di grandi soddisfazioni professionali: si tratta di un bibliotecario di provincia che si impegna anche nella ricerca, e che cosÏ sperimenta le proprie capacità stilistiche in uno sforzo continuo di emulazione con le forme poetiche e narrative della tradizione. Fin dall'inizio del racconto, che si spiega analetticamente per tre lunghi capitoli, appare evidente la funzione narrativa delle citazioni, che in maniera più o meno velata strutturano il frammentarsi della trama in singoli episodi e li caratterizzano. Si susseguono cosÏ ricordi di letture di Dante, Verlaine e D'Annunzio, di romanzi d'avventure come Huckleberry Finn di Twain, a cui si aggiungono altri frammenti, tutti intessuti di versi del Petrarca, che dapprima vi compaiono appena nascosti, poi sempre più evidenti, fino ad assumere l'aspetto del travestimento letterario; in altri brani, essi si presentano alternati a passi danteschi e ad echi di poesia popolare. Si riconosce poi una citazione ricorrente da Dino Frescobaldi ("in quella parte ove luce la stella, che del su' lume dà novi disiri, si trova la foresta de' martiri, di cui Amor cotanto mi favella"), significativa perchÈ rappresenta la visione aristotelica che il protagonista ha della cultura letteraria, e perchÈ anch'essa si ritrova poi alla base di un episodio ironico e di travestimento. Nella parte centrale del racconto, che si sviluppa linearmente come un diario di viaggio e con l'intersecarsi di una doppia trama, le idee dominanti all'interno dei singoli brani provengono dalle foscoliane Ultime lettere di Jacopo Ortis, e ancora dal Canzoniere del Petrarca, che a loro volta sono oggetto di travestimenti e di microstorie, come la digressione sul trafugamento del braccio del poeta, unica "reliquia laica" finora rubata. In questa sezione, già cosÏ satura di letteratura colta, si inseriscono anche presenze minori, come la biografia di Foscolo scritta dalla poetessa arcadica Aglalia Anassillide; si ritrovano poi quattro episodi di scoperta ironia sulla tradizione letteraria illustre, segnatamente un brano di travestimento mitologico del quotidiano mediante la leggenda di Apollo e Dafne; il resoconto della visita alla casa del Petrarca; le invenzioni e sperimentazioni linguistiche operate dal protagonista, nel suo esercizio stilistico fondato sull'emulazione del repertorio stilnovistico cortese; e infine un altro lungo esempio di travestimento letterario del reale, sulla base della canzone petrarchesca "Chiare, fresche e dolci acque". Va segnalato che è proprio su questo notissimo testo della tradizione poetica che l'autore propone anche una personale lettura dei classici, attraverso la teoria della "ricezione devastante", qui comunicata tramite la protagonista femminile del romanzo:
"La ricezione devastante è quella del lettore piccolo-borghese che fa traslocare il testo complesso nel suo linguaggio mediocre. Il trasloco genera un nuovo testo, che è la deflagrazione delle ragioni sublimi dei classici e insieme un modo tutto nuovo, singolare di goderne".
Infine, in questa nuova proposta critica sembra attualizzarsi la visione aristocratica di chi osserva la ricezione media del testo letterario da parte del lettore non specialista ma comunque portatore di un personale, particolare approccio alla tradizione illustre.
n. zero, maggio 1995 - 1995, n. 1