La lettura di libri di memorie sugli anni ’70 non è sempre piacevole.
Sovente, tale genere letterario, induce alla tristezza o all’incazzatura,
per questo preferiamo i testi che cercano, attraverso uno sforzo di distanziamento
e di ricostruzione del quadro storico sociale, di rendere conto di vicende
collettive ed individuali che hanno, nella loro ricca dialettica, un interesse.
Facciamo però un’eccezione per questo libro che la merita, in quanto
la Banda Bellini, a differenza di altri raggruppamenti non ha lasciato,
per i suoi stessi caratteri, traccia significativa nella letteratura dell’estrema
sinistra.
Si tratta di un testo steso sulla base delle narrazioni di Andrea Bellini,
il leader del Collettivo Casoretto di Milano. E’ una ricostruzione di memoria
che non ha alcuna pretesa di rigore storico o sociologico, ma che può
interessare allo storico o al sociologo, perché è testimonianza
viva, ancora diretta, corporea ed emotiva, a distanza di circa trent’anni
dagli avvenimenti raccontati. Il libro narra le vicende personali dello
stesso Andrea Bellini e del Collettivo Casoretto che era uno dei tanti
gruppi locali sorti in quegli anni a partire da un’aggregazione di scuola
(Licei Einstein, Carducci, VIII°) e di quartiere (la zona che va da
Piazzale Loreto al Leoncavallo). Esso si caratterizza per due tratti tipici:
la sua autonomia rispetto ai gruppi maggioritari della sinistra milanese,
la coincidenza fra gruppo politico e servizio d’ordine. La diffidenza del
gruppo verso le formazioni maggiori dell’estrema sinistra denotava il rifiuto
di sottomettersi ad una disciplina d’organizzazione che ne avrebbe limitato
la libertà di movimento. Non c’era, a rigore, alcuna critica della
gerarchia ma una diversa gerarchia. Il modello “bolscevico” dominante era
abbastanza classico: al vertice gli intellettuali, in mezzo i quadri sia
politici che militari, in basso la classe da educare e dirigere. Per la
Banda Bellini, al vertice c’erano i capi militari e in basso i ragazzacci
putiferianti che li seguivano. Un modello organizzativo elementare, caldo,
fusionale ma non meno autoritario. La stessa ricerca di rapporti con Lotta
Continua, col Collettivo Autonomo di Architettura, con Rosso, dimostrava
che erano consapevoli dei limiti di quell’esperienza, che però era
sufficientemente soddisfacente per la maggior parte di loro.
Insomma, lo scontro fra Banda Bellini e gruppi maggiori della nuova
sinistra era, per un verso, un’espressione dell’istintiva ostilità
degli uomini di mano verso gli “intellettuali” parolai: “fanno gli gnorri
intellettuali ruminando Hegel Marx e Marcuse” (43) e, per l’altro, di una
banda con un immaginario”territoriale” contro l’apparato statuale e sbirresco
dei katanghesi, cioè il servizio d’ordine del Movimento Studentesco
della Statale (poi MLS). Non a caso il gruppo fu denominato Banda Bellini
era considerato dal resto della sinistra estrema non come un soggetto politico
ma come uno spezzone del variegato mondo dei servizi d’ordine. Nella geografia
politica dell’allora estrema sinistra la Banda Bellini non è comparabile
ai mazzieri del Movimento Studentesco capanniano, dei quali non condivide
la pratica della bestiale violenza contro le altre forze della sinistra,
né l’ideologia staliniana, ma è solo una banda di quartiere
priva di ogni identità politica e teorica. Questa, infatti è
l’immagine che emerge dalla lettura del libro nonostante i tentativi di
Andrea Bellini di valorizzare i momenti di discussione e di approfondimento
che coinvolgevano il gruppo.
In un clima da “guerra fredda”, nella cornice di “scontri, celere,
caramba, feriti, violenze, caccia all’uomo, tattiche di guerriglia urbana,
caschi, sampietrini, fascisti e padroni, ci si sposta un po’ più
in là sulla teoria. Bisogna leggere –informarsi- studiare Marx,
Gramsci, Bordiga, i filosofi della scuola di Francoforte” (63). Non è
certamente quest’ultima la molla che ha fatto precipitare questo “giro
di amici” nel turbinio del ’68 e degli anni immediatamente seguenti. A
Bellini, non interessa ricostruire contesti storici e politici dentro i
quali maturarono le loro scelte, preferisce ricordare le emozioni forti,
gli impatti epidermici che determinavano un uso nuovo, esagerato e vitalistico
dei corpi in tutti i loro aspetti, che vivevano intensamente nel vivace
clima di scontri di piazza dell’epoca. Così non ha difficoltà
a ricordare, candidamente, che si accorse che era arrivato il ’68 “perché
le donne hanno incominciato a darla via senza problemi –a socializzare
il corpo con noialtri maschi”, cosa alla quale –confessa- non eravamo preparati
(35). Di lì a ricordare il clima promiscuo e rivoluzionario delle
occupazioni il passo è breve: “una travolgente ondata erotica ha
spazzato i disciplinati lidi della razionalità della politica, occupare
significa rimorchiare, pomiciare e scopare –ubriacarsi- dormire tutti insieme,
organizzare le ronde militari i picchetti, scrivere volantini confrontarci
con il Preside, la polizia, intervenire in elettriche assemblee” (43-44).
E anche la rivoluzione è intesa come partecipazione dei corpi alla
lotta di classe e alla conquista degli spazi urbani, piazze, scuole, vie
e corsi, da strappare alle forze dell’ordine, all’autorità, ai fascisti,
ai servizi d’ordine degli altri gruppi politici: “il futuro sarà
disseminato di migliaia di cortei –il nostro unico scopo d’ora in avanti
saranno gli scontri, la città, il mondo intero può diventare
anche nostro” (48).
L’emozione fisica è un ricordo ricorrente e spesso centrale:
“in quei momenti è indescrivibile lo stato d’animo in cui ti ritrovi
–il tempo si dilata all’inverosimile- il sudore freddo ti cola attraverso
la schiena, stringi le mani sui bastoni” (79). L’erotismo, come premio
del “guerriero” che ha sfidato il nemico e rischiato la vita è presente
e raccontato: “ci rilassiamo limonando piacevolmente con le nostre amiche”
(83); la morte stessa è una componente che affianca e accompagna
il percorso: Bellini racconta con toni drammatici l’uccisione, provocata
da un candelotto della polizia, di Saverio Saltarelli il 12 dicembre del
1970: “è morto tra le mie braccia” (90). Assenti nei ricordi di
Bellini le vivaci lotte in fabbrica e sul territorio (scioperi degli affitti
e delle bollette, azioni antisfratto) che si sviluppano in quegli anni,
portate avanti, ad esempio, dalla sede del Comitato di quartiere che stava
di fronte a quella del Casoretto, che lavorava con il Coordinamento Fabbriche
di Viale Monza, che editava un giornale, Fabbrica Territorio, organizzava
scioperi e occupazioni di fabbriche, partecipava alle ronde contro gli
straordinari, era in relazione con diversi collettivi di fabbrica.
La storia della Banda Bellini precipita nella metà degli anni
Settanta. I corpi sono messi a dura prova dal dilagare dell’eroina, dall’avanzare
del nuovo proletariato giovanile -il cui modo di stare in piazza e di fare
festa risulta lontano dalla pratica dei belliniani- e dal richiamo della
lotta armata. Il femminismo col suo affermare che il “personale è
politico” li aveva messi in crisi, abituati com’erano all’esteriorità
e alla possessività maschile nel rapportarsi con le donne. Per il
resto, droga e lotta armata, “ci è andata di culo” conclude il protagonista,
nessuno ha fatto il salto nella clandestinità, si è fermato
in tempo e uno solo dei loro è morto a causa della droga. Pur essendo
abituati a chiedere esagerazioni dai loro corpi, non se la sentirono di
sostituire il wiski e altri super alcolici con l’eroina, la spranga con
la pistola, l’ostentazione pubblica della banda che sfila nei cortei vestita
in modo riconoscibile, con il gruppo isolato e nascosto che colpisce sparando.
Per concludere vorremo esplicitare una domanda che il libro propone.
La Banda Bellini è espressione, a modo suo, dello scontro fra le
classi? Non ci riferiamo al fatto, ovvio, che essa nasce in una fase di
violento scontro sociale e che, in qualche modo, ne risente ma all’interpretazione
che dà di questo scontro, al modo che ha di viverlo. La Banda Bellini
conduce una forma, affatto particolare, ma suggestiva, di lotta di classe,
che merita di essere colto a pieno, e che potremo definire “classe, sesso
e generazione”. La narrazione di Andrea Bellini pone in primo piano
il fatto che la gloria conquistata sul campo permetteva un successo con
le ragazze del movimento che era, sino a poco tempo prima, impensabile.
Certo, la narrazione di Andrea Bellini, caratterizzata da una evidente
autenticità, è tutta dentro un immaginario maschile prefemminista.
Ma l’immaginario degli altri era poi così diverso? Forse era espresso
con maggiori mediazioni dialettiche, con più diaframmi culturali,
era meno brutale, ma non meno vero. Al punto che ci si interrogava sul
perché e il per come del “successo” con le donne di cui si vantavano
quelli della banda del Casoretto, anche per giustificare e comprendere
le ragioni di una vita politica e sessuale più morigerata e meno
pubblica e spettacolare, resa forte da un progetto politico percepito come
qualitativamente migliore per il quale si era disposti a pagare il prezzo
di una minore visibilità.
La lotta di classe, soprattutto negli anni Settanta, va intrecciata
e ricostruita indagando anche sulle relazioni di sesso (oggi sarebbe meglio
dire di genere) e generazionali (conflittualità con il mondo degli
adulti). La Banda Bellini, a modo suo, ha incarnato un aspetto di questa
vicenda con più coerenza di altri, e chi li ha conosciuti può
dire che erano più simpatici di altri a causa della loro generosità,
della loro incapacità di calcolare e di capitalizzare, del loro
vivere le loro esperienze fino in fondo.
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Quasi una recensione
Il 5 novembre 2002 si è tenuta la presentazione del nuovo romanzo di M. Philopat, La Banda Bellini, Shake Edizioni, Milano 2002, pp. 192, € 12,00. Presentazione alla quale doveva partecipare anche Joe Fallisi, autore delle due e-mail che pubblichiamo e che formano un’insolita recensione del libro scritto da Marco Philopat.
Caro Marco,
ti prego di rettificare l’annuncio che la Shake ha inviato: io non
ci sarò alla presentazione de La Banda Bellini. Tu sai bene che,
nel caso fossi venuto, l’avrei fatto solo per amicizia nei tuoi confronti
e di Gomma. Non ho alcun bisogno di pubblicità per nessun mio disco,
tanto meno darò il mio appoggio a qualsivoglia apologia dello stalinismo.
Come ti ricorderai, parlandomi a suo tempo del libro (di cui, fino a ieri,
non mi era stato possibile leggere nulla), mi avevi detto che di quella
“banda” il tuo romanzo avrebbe fornito una narrazione critica. Ma già
dalla quarta di copertina ci si può rendere conto di quale sia il
senso esattamente opposto del libro. “L’uomo che dev’essere ucciso è
Andrea Bellini, biondo, capelli lunghi, alto un metro e novanta, un trench
lungo fino ai piedi e l’immancabile Ray-ban.” Ma non hai provato vergogna
scrivendo queste puttanate estetizzanti? E ti ha veramente commosso, entusiasmato,
ti ha fatto “sognare”, l’“epos” (!) di questo piccolo racket votato al
“controllo territoriale”, al pestaggio, dieci contro uno – degni eredi
di altri infami “servizi d’ordine” milanesi –, di qualche tossico, di qualche
“fascista” o, meglio ancora, di qualche compagno scomodo, che li vedeva
per quel che erano, e perciò li combatteva a viso aperto?... “Una
banda di quartiere che ha scelto la strada della politicizzazione e della
militanza, con l’idea di non essere ‘servi di nessuno’ e le immagini di
Il mucchio selvaggio nella testa...” Ma a chi lo racconti?...
A me no di certo.
Joe
Rettifica definitiva
“‘Sono i miti che rovinano tutto – nascono dall’ignoranza – bisogna studiare – conoscere le cose – applicarsi – chiedersi i perché – avere spirito critico’” (M. Filopat, La Banda Bellini)
Caro Marco,
come ti dicevo al telefono, devo fare un’ulteriore, definitiva rettifica,
ma questa volta al mio stesso e-mail che ti ho inviato in un impeto, l’altra
sera. È il tono e anche l’assunto del messaggio che ora ai miei
stessi occhi risulta completamente sballato. Cerco di spiegarti cos’è
successo. Mi avevi portato La Banda Bellini di pomeriggio, ricordi, poi
io ero dovuto subito andar via e solo la sera l’avevo ripreso in mano.
La prima cosa: leggo la quarta di copertina, NON mi piace quel ritrattino,
estetizzante, mitizzante... incomincio subito a incazzarmi... sfoglio il
libro dove capita e il caso vuole (un caso veramente sfortunato) che l’occhio
mi cada sempre su frasi, periodi che non mi vanno, che mi confermano quella
prima impressione... oh cazzo, mi dico, ma allora si tratterà di
un incontro di reduci dell’autonomia più tetra, di sprangatori di
merda e vigliacchi, di rackettari abbrutiti, di stalinomafiosi che rimirano
allo specchio le loro gesta di “gloria”, dentro ’sto libro... un’apologia
infervorata... In un istante mi tornano alla mente i miei nemici del Movimento
Studentesco, quei lividi figli di papà adoratori della gerarchia,
di tutti i regimi dove il proletariato era rimasto inculato, spolpato sino
all’osso, un’immensa ombra che suda, lavora e crepa in silenzio, e dove
poteva solo impazzire o strisciare, perché era lui stesso, con la
sua rivoluzione, ad aver innalzato sul piedestallo i maiali, i “migliori”,
e una volta lassù... facce di marmo, satrapi sorridenti, piccoli
Padri, tallone di ferro! inamovibili!... protetti da tutte le loro Cheke,
Ghepeù, Kgb, da una rete grandiosa di burocrati e di spie, a passarsi
le consegne e il bacio della morte, via una cariatide avanti l’altra...
Quei figli stalinisti di papà democristiani che si erano impossessati
della Statale come del loro racket, della loro Lubianka, che se la pappavano,
incubando le carriere di domani – dirigenti, amministratori, sindacalisti,
consulenti, managers, “quadri”, “creativi”... per quando la pacchia sarebbe
finita, la moda evaporata, come le grida, i lacrimogeni, gli spari... protetti-protési
a ventaglio mobile dalla loro invenzione più riuscita, anzi l’unica:
il “servizio d’ordine”!... Spranghe, chiavi inglesi, mazze, catene, tutti
i ferri del mestiere ben oliati, sempre all’incanto... ai più sadici,
ai più “affidabili”, nati sbirri, cani di Pavlov... ecco le truppe,
dieci contro uno, sempre!, all’assalto del “fascista”!... sangue che cola
dai muri, cervello sul selciato... ancora, ancora!... La loro “lotta antifascista”,
di loro, fascistissimi!... Una palla colossale, una diversione in piena
regola... Tutti i problemi veri, cruciali, la critica del lavoro salariato,
della merce, della religione, dello Stato, della società dello spettacolo,
della vita quotidiana, la coerenza tra mezzi e fini, il rapporto – da reinventare
– con le altre speci e la natura, la realizzazione dell’arte... affanculo,
ma figùrati!... come il sanscrito per un leghista!... Viva il Pensiero
del Grande Timoniere, dagli al fascista!... Eh già, con una piccola
avvertenza: sostantivo-aggettivo di grandi capacità, elasticissimo!...
Adatto, soprattutto, a inghiottire i senza partito, gli anarchici, i refrattari
alla caserma... Parola magica ben sperimentata dai loro maestri, di un’efficacia
ammirevole, su chiunque... E con effetti e contro-effetti, teorici e pratici,
a lungo corso... Così, per esempio, proprio ora che sì, bisognerebbe
essere antifascisti, alla grande – i fascisti sono al potere, “sdoganati”
dal nano di Arcore, al governo della malavita!... di antifascismo, più
nisba... Un fiorire di celebrazioni funeree doppie, Marzabotto-El-Alamein,
torni pure qualsiasi cornuto Savoia!... Tutto scolorito, omologato, dissolto!...
Chi se ne frega, a casa, a casa, immersi nel tubo catodico!... Fini, teschio
in doppiopetto, vergogna d’Europa, s’appresta a volare tra le braccia del
massacratore di Sabra e Chatila, anche lui “revisionista”!... Fra un po’
vedremo Ciampi a Predappio...
I ricordi hanno poi un brusco salto... Vanno alla Milano della fine anni 70... La bomba di piazza Fontana e l’omicidio di Pinelli, mio amico e compagno del cuore, era come se avessero chiuso un’epoca, quella inaugurata dal Maggio, dove accanto a tutti i rigurgiti “marxisti-leninisti”, centomila speranze si erano aperte, un immenso rovesciamento di prospettiva... Adesso, l’atmosfera era di nuovo plumbea, i “ruoli” ri-definiti... C’era stato, sì, un trambusto dei giovani, qualche danza simil-Dadà nel 77, ma come copie di copie di un originale disperso... Risate amare, già televisive... Me ne stavo in disparte, in silenzio. (Troppi morti, troppi suicidi di amici, i più vicini, i più cari, Eddie Ginosa, Giorgio Cesarano, tanti altri... Io non avevo – non ho – da “insegnare” niente a nessuno.) Nell’ombra, i lottarmatisti, clandestini a se stessi, nati da quelle bombe di Stato, coi loro “tribunali del popolo” e la lingua di piombo-legno; alla luce del sole il movimento dell’Autonomia, dov’erano confluiti molti fiumi, e molto diversi tra loro. “Egemonica”, una corrente, quella di Negri, che dal punto di vista teorico e filosofico era una chiavica, un rinculo totale, una corsa febbrile al recupero, sgraffignando a destra e a manca... il vecchio cadavere stalinista rivestito alla moda, “giovanile”, coll’eschimo, “desiderante”!... Modernista, sì certo, con iniezioni di Deleuze e di chiunque altro servisse a dare un qualche tono e l’apparenza di un corpo che cammina... nichilista, estetizzante... Con due cardini ideologici: “contropotere territoriale” e “autovalorizzazione”... Non centri sociali di anti-potere, fluidi, mobili, creativi, imprevedibili (che anche c’erano, per fortuna!), ma piccoli rackets tetri compatti con all’interno tutti i ruoli di sempre, e l’illusione di avere un’identità come un’azione in rialzo e una missione da imporre... Preti, come al solito, missionari, curati del popolo – e quanto ai metodi, gli stessi di v. Festa del Perdono [è la via dove sorge l’Università Statale N.d.R.]... Ma il “popolo” non vi vuole, stronzi!... Vaccata per vaccata, preferisce il bla-bla della televisione, che almeno gli concilia il sonno, si annoia a morte alla vostre litanie!... Ci vuole ben altro per svegliarlo dal torpore... innanzi tutto occorre svegliarsi – e sognare*!... Sputare sulle mode, su ogni “trend”, rompere lo specchio mediatico, “sregolare” i sensi, avere sensi nuovi, agire, non reagire, fantasia, non fantasticheria, poeti, non “artisti”, delegare il meno possibile, non (s)vendere niente, senza capitalizzare niente, senza capi, senza illusioni!... Se siamo immersi in un sortilegio globale, è un’opera grandiosa di contro-magia che occorre, materiale e spiritualissima, poesia in azione, niente di meno!... Autovalorizzazione?... Col cazzo!... La trappola, il busillis, sta proprio lì, nella “costruzione” della “persona”, una maschera dietro cui alla fine c’è il nulla... è proprio questa la chimera spettacolare... Più la vita è per tutti diventata un’immagine astratta, un sostituto, un ricambio, una copia, un clone, un “altro”, la citazione di un film, un ricordo del Grande Archivio, più tutte le scelte fondamentali sono eterodirette, eteronome... più questo stesso individuo, che non esiste, deve potersi credere “protagonista”, un quantum particolare sul mercato dei desideri, liberissimo, circolante, in vendita, in concorrenza, in televisione, in corteo, in gioco, in guerra!... rimbalzato da mille specchi, “produttore immateriale”, puro valore che si valorizza – bit spettrale nella nebbia!... Ecco la Grande Frontiera!... globale, democratica!... Il miraggio, l’Eldorado per tutti!... È l’America, sempre l’America il faro, il destino agognato... L’“Impero”!... ah che geniale trovata!... un’apologia della “globalizzazione” senza vergogna, totale, delirante!...
Mentre questi pensieri mi attraversavano le meningi, ricevo messaggi
di vecchi amici che mi dicono in sostanza “Joe, ma ’sta banda Bellini,
era una concorrente delle altre, solo un po’ più vanagloriosa e
ciulla, la stessa roba avariata, i soliti bruti, picchiatori di piccoli
spacciatori e di tossici”... È la loro versione dei fatti – quello
che loro hanno vissuto, come l’hanno vissuto... Dovrei sentirne delle altre,
non c’è dubbio – col senno di poi... Reagisco come un bufalo...
che cazzo c’entra la “Ballata del Pinelli” con ’sta gente? che cazzo c’entro
io?... non ci andrò mai!... scrivo di getto l’e-mail che hai ricevuto...
è fatta. Passano le ore. Il tuo libro è rimasto su un cumulo
di altri, è lì che mi guarda. Rivedo i tuoi occhi brillanti
e generosi... Di notte finalmente decido... Vabbè che negli ultimi
tempi sei più fuori del solito, una molla ardente, ma tu Bellini
e i suoi compagni non li hai mai conosciuti di persona... e se quello che
hai scritto non fosse vero, o così esagerato da essere falso?...
E poi, cristo d’un dio, se critichi un libro dovrai pure averlo letto,
tutto!... o no?... Certo. Quindi lo riprendo in mano, questa volta comincio
dall’inizio. E vado avanti fino all’ultima pagina, rimanendo così,
in piedi, per ore...
Prima di tutto, è BELLO, e questo già dovrebbe bastare,
perché per me bello vuol dire scritto con la mente e col cuore...
La penna funziona alla grande, morde e non fugge, va diritta, rabbiosa
e sincera fino in fondo. Quel che mi aveva fatto incazzare, la mitizzazione,
i tratti estetizzanti, si perde dentro il corpo della narrazione, come
una foglia morta che scivola via... E poi la storia che racconti, che sei
riuscito a raccontare benissimo, con una capacità di identificazione
eccezionale, tu che ai tempi eri un bambino, non nasconde nulla, con onestà;
ma, appunto, l’essenziale della loro esperienza non si può ridurre
a quei comportamenti che avevo definito nel mio messaggio... Anzi, tutt’altro...
Certo alieni dalla riflessione teorica, confusi – mezzo maoisti, mezzo
libertari –, sempre (troppo) pronti a menar le mani, narcisi, prigionieri
di un ruolo... ma infamie, porcate di quelle che ti rimane un marchio nell’anima...
nessuna!... da questo punto di vista molto più differenti che simili
rispetto ad altre “bande” di allora... anzi con episodi di generosità,
di umanità e di coraggio che me li rendono semmai simpatici, pur
con tutto quello che ci poteva separare... All’inizio, per esempio, quando
racconti di Andrea che al liceo si butta nel mucchio e salva dal linciaggio
un... fascista!** ...
I pentiti mi hanno sempre fatto schifo, e tutta l’ideologia penitenziale,
tutti gli avvoltoi che si precipitano, i turiboli che ansimano, quella
puzza di chiesa, i gemiti, le confessioni, i tradimenti, i mea culpa, il
piacere di umiliarsi e umiliare, tutta la riduzione dell’essere a croce,
a polvere, a sputo... Gli scricchiolii delle ginocchia che si piegano al
mio orecchio hanno lo stesso suono delle catene... No, niente “pentirsi”,
mai! meglio morire, meglio andarsene!... Noi siamo, anche, il nostro passato,
che lo si voglia o no. Si può solo guardarlo intrepidi, con piacere
a volte, ma anche con orrore, senza “far quadrare i conti” barando, senza
ricucirsi alla meglio il vestito, e, se ne abbiamo la forza, fare meglio.
Questo è quello che conta, nient’altro.
Quel tanto di ingenua mitizzazione che c’è ne La Banda Bellini
è in fondo solo un omaggio al meglio della loro esperienza. E forse
proprio il tuo libro, così, solleva Andrea e i suoi amici da un
ruolo, e dai ricordi peggiori. Ora possono andare avanti, togliere l’àncora,
ripartire per l’ignoto. Quanto alla morte, è l’unica cosa sicura,
per tutti.
Con affetto e stima:
tuo
Joe
* “Da lungo tempo Cavallo Pazzo stava attendendo l’occasione di cimentarsi in battaglia con le Giacche Blu. In tutti quegli anni, dal combattimento di Fetterman a Fort Phil Kearny, aveva studiato i soldati e il loro modo di combattere. Ogni volta che si recava sui Black Hills per avere visioni, aveva chiesto a Wakantanka di dargli magici poteri così egli avrebbe saputo come condurre gli Oglala alla vittoria se gli uomini bianchi fossero venuti di nuovo a fare la guerra al suo popolo. Sin dalla giovinezza Cavallo Pazzo sapeva che il mondo in cui vivono gli uomini è solo un’ombra del mondo reale. Per entrare nel mondo reale doveva sognare e quando vi si trovava ogni cosa sembrava ondeggiare o saltare: questo avveniva perché si chiamava Cavallo Pazzo. Egli aveva appreso che se sognava se stesso nel mondo reale prima di partecipare a un combattimento, avrebbe potuto sopportare qualunque cosa.” (Dee Brown, Seppellite il mio cuore a Wounded Knee, Oscar Saggi Mondadori, Milano 1977, p. 305)
** “L’aitante fascistello rimane lì – mezzo morto – gli vanno
addosso tutti quanti – ricucendo sulla carneficina le divisioni e le lacerazioni
politiche... Siccome a me fa schifo vedere il linciaggio di un povero cristo
svenuto e sanguinante – mi metto di mezzo a urlare più forte di
tutti che questa è una vigliaccata – ‘Non si spara sui feriti –
non si può mica farlo fuori cazzo!’ – ‘È un poveraccio –
un ragazzo giovane – come si fa a massacrarlo così (...)” (M. Filopat,
La Banda Bellini, Shake, Milano 2002, p. 55)
Joe Fallisi, "Rivista anarchica", N. 287, febbraio 2003