Capita che la sociologia sia più “intrigante” della storia nell’interrogare
fatti ed eventi, perché sa porre in campo variabili, ipotesi interpretative
e uso di fonti che avrebbero fatto sobbalzare il buon Benedetto Croce.
L’ “inferma scienza”, come la chiamava il padre dello storicismo italiano,
ha posto e continua a porre al centro delle sue riflessioni il tema del
conflitto generazionale, argomento liquidato a suo tempo da don Benedetto
con l’affermazione che l’unico problema che avevano i giovani nella società
era quello di diventare al più preso adulti. Questo libro, come
altri usciti recentemente e non, indaga invece la specificità della
condizione giovanile, quale emerge in Italia a partire dal secondo dopoguerra.
Vari elementi in cambiamento nella società favoriscono il formarsi
di una specifica condizione giovanile che determina un conflitto generazionale
che affianca e attraversa quello tradizionale di classe. Soprattutto negli
anni Settanta le classi sociali in Italia, in specifico quella operaia,
sono dilaniate al loro interno da un conflitto generazionale e da un conflitto
di genere, suscitato dall’emergere del femminismo. Classe, generazione
e genere appaiono quindi sempre di più concetti utili e inseparabili
per analizzare i mutamenti che percorrono la società negli ultimi
quarant’anni.
Il libro, formato da più saggi (Crespi, Santambrogio, Lalli,
Cristofari, Cruzzolin, Grande, Jedlowski), si apre con una riflessione
teorica e metodologica circa la concettualizzazione necessaria per affrontare
il tema della ricerca -la rappresentazione sociale dei giovani- e prosegue
con una serie di ricerche empiriche volte a verificare l’efficacia del
quadro paradigmatico messo in campo. Per indagare sull’immagine dei giovani
che si è andata sviluppandosi nell’Italia contemporanea si parte
da tre concetti già presenti nell’opera di Durkheim: quello di senso
comune, rivisto e integrato da una sociologia costruttivista che conduce
a porre l’attenzione sul rapporto tra senso comune e mutamento sociale;
quello di rappresentazione sociale mutuato dai lavori di Moscovici a partire
dagli anni Sessanta e quello di memoria sociale.
Nel suo saggio Santambrogio ipotizza quattro fasi di rappresentazione
sociali dei giovani nel secondo dopoguerra. Una fase zero (1950-1967) in
cui i giovani non esistono come soggetto sociale. I ragazzi delle magliette
a strisce del luglio 1960 e i “giovinastri” e “teppisti” torinesi di Piazza
Statuto (analizzati attraverso la rappresentazione datane da cinque quotidiani
nazionali da Cruzzolin), non sarebbero ancora un soggetto sociale autonomo.
Questo è vero per i giovani delle “magliette a strisce”, emblematicamente
riassunti e incorporati nella protesta antifascista e resistenziale dalla
canzone di Fausto Amodei, Per i morti di Reggio Emilia, che dice “di nuovo
come un tempo/sopra l’Italia intera/ fischia il vento urla la bufera”,
ma che segnala anche un “fatto empirico” tragico riguardo i caduti sotto
gli spari della polizia che evidenzia la presenza giovanile: “son morti
sui vent’anni”. E così pure i giornali dell’epoca segnalano con
preoccupazione o plauso la folta partecipazione giovanile a quelle manifestazioni,
soffermandosi a lungo nella descrizione della loro diversità antropologica
rispetto alla generazione precedente: indossavano i jeans, camicie a righe
colorate, giravano in lambretta o vespe, alcuni avevano i capelli un po’
lunghi sul collo, amavano trascorrere il tempo al bar ascoltando le canzoni
rock inglesi o degli urlatori italiani dai juke box. Diverso è poi
quello che accade a Piazza Statuto a Torino, episodio nel quale s’intrecciano
motivi di rivolta scatenati dal lavoro in fabbrica, dalla presenza fitta
di giovani lavoratori, molti dei quali meridionali di recente immigrazione.
In questo caso non c’è comprensione, ma solo condanna, sia a destra
che a manca: sono bollati come giovinastri, teppisti, provocatori al soldo
di Valletta; l’identità loro attribuita è negativa: sono
dei ribelli (Il ribelle è il titolo di una canzone di Celentano
del 1959) e dei “poco di buono”, dei “ragazzi di strada” che vivono ai
margini della città, come canteranno I Corvi alcuni anni dopo.
In questa fase zero, manca quello che forse è il nucleo di un
inizio di presa di coscienza generazionale, cioè il fenomeno dei
capelloni e del beat italiano del biennio 1965-’67. Una protesta esistenziale,
prima che politica, fagocitata dalla musica e dalle riviste giovanili («Ciao
Amici», «Big», «Giovani») di quel periodo,
cantata dai Rokes (“e se noi non siamo come voi/ una ragione forse c’è./
[…] ma che colpa abbiamo noi”) e da tante altre canzonette di quel momento.
Essa precede la fase prima (1968-1980) nella quale si ha l’affermazione
dei giovani in quanto soggetto; gli episodi emblematici sono, questa volta,
quanto accade a Valle Giulia il 1 marzo del 1968, puntualmente analizzato
da Cruzzolin, e il movimento del ‘77. Un’affermazione dei giovani come
soggetto che connoterà un intero decennio caratterizzato dal paradigma
del conflitto. Seguono una seconda fase (1981-2000) nella quale domina
lo stereotipo del disagio e un processo di differenziazione, e una terza
(dal 2000 in poi) dove si afferma un processo di giovanilizzazione della
società, e anche il movimento no-global che attiva i giovani dopo
anni di disimpegno, di disgusto per la politica, ma che sembra anche dividerli
elettoralmente, tra studenti e non studenti (lavoratori e disoccupati).
Secondo una recente ricerca pubblicata da Il Mulino (Perché ha vinto
il centro destra), gli studenti propendono per il movimento no global,
per Rifondazione e per il centro sinistra in genere, mentre i giovani lavoratori
e disoccupati sono più vicini ad Alleanza Nazionale e al centro
destra.
Ai giovani degli anni Cinquanta e Sessanta, chiamati quelli della “prima
generazione” è dedicato il saggio della Cristofori la cui intenzione
è la ricostruzione della rappresentazione sociale di questa generazione
in formazione attraverso l’analisi di 55 ricerche empiriche sui giovani
prodotte dalla nascente sociologia italiana. In questo saggio sono richiamati
aspetti di rivolta di costume ed esistenziali che in parte integrano quell’aspetto
che pare mancare nella precedentemente citata fase zero, e cioè
l’emergere di una cultura giovanile e del movimento beat. Seguono saggi
sulla rappresentazione dei giovani in televisione (Lalli) e sui giovani
e la memoria storica (Grande) che affrontano temi di grande interesse e
attualità, quello del rapporto tra società e società
dello spettacolo e quello del passaggio della memoria da una generazione
all’altra, tema quest’ultimo che sembra ossessionare più i “vecchi”
che i “giovani”, i quali spesso, quando diventano soggetti e protagonisti,
hanno la tendenza a recuperare della memoria e della storia passata solo
ciò che risulta utile alla loro vita e alla loro rappresentazione
del mondo.