Gigi Di Lembo è uno storico dell’anarchismo che rifugge dalle
accademie e dai luoghi comuni fiorenti nell’ambiente universitario, dove
insegna, e che vanno attecchendo anche nel movimento a cui dedica da decenni
il suo impegno militante e i suoi consigli di buon senso “malatestiano”.
Gigi è anche per molti giovani storici e compagni un “amico” nel
senso profondo e polisemico della parola: consulente, confidente, critico
benevolo, contraddittore, alleato prezioso e, non ultimo, di piacevole
compagnia. Queste qualità umane si riflettono nel suo ultimo libro,
Guerra di classe e lotta umana. L’anarchismo in Italia dal biennio rosso
alla guerra di Spagna (1919-1939), apparso recentemente per i tipi
della BFS di Pisa, che solo riduttivamente può essere definito un
capolavoro della storiografia sull’anarchismo italiano (e scusate se è
poco!), ma che è soprattutto espressione di una grande disponibilità
al confronto e allo scambio comunicativo su un terreno, quello storico,
che sembrerebbe negarli. Ne emerge un’opera “aperta”, fertile, discontinua
ma armonica, e letterariamente suggestiva: miracolo occorso a pochissimi
storici di vaglia. E qui il pensiero va subito a Pier Carlo Masini, della
cui Storia degli anarchici italiani, che s’interrompe alla vigilia
della prima guerra mondiale, il libro di Di Lembo costituisce il naturale
prolungamento.
Guerra di classe e lotta umana regge brillantemente il confronto
con la Storia di Masini. Quest’ultimo era un inarrivabile e forbito narratore,
cesellatore del dettaglio preciso, razionalista meticoloso, erudito compiaciuto
e compiacente, finanche a scapito della completezza dei fatti e delle idee
che tratteggiava. Ben pochi avrebbero potuto competere con lui su quei
terreni. Ma talvolta egli si dimostrava uno scrittore partigiano (di quella
tendenza politica o di quel personaggio che più lo attraeva). Di
Lembo non lo imita in questo: accanto alle proprie, infatti, riporta e
discute le convinzioni di altri. Magistrali in tal senso le pagine sul
“fronte unico rivoluzionario” e particolarmente la critica che vi svolge
in rapporto al fallimento del movimento delle occupazioni nelle fabbriche
(pp. 89-92).
Masini di tanto in tanto sfornava giudizi apodittici, considerazioni
definitive, lì dove Di Lembo avrebbe posto e pone efficaci interrogativi.
Come quando tenta di spiegare (p. 94 ma più avanti vi tornerà
sopra) la tenuta del movimento anarchico dopo l’arresto di Malatesta e
della redazione di “Umanità Nova” al completo, con l’abitudine «ad
agire sulla base dell’iniziativa individuale e su quella dei contatti personali
tra elementi che si conoscevano a fondo, e non sulla base di organismi
che comunque lasciano tracce». In tal modo rimette in discussione
quell’opinione, prevalente tra gli storici dell’anarchismo, che attribuisce
all’organizzazione strutturata quei benefici che nega invece alla libera
iniziativa dei singoli e dei gruppi. Di Lembo preferisce tenersi lontano
dalle dispute tra le varie tendenze; punta piuttosto a evidenziare le responsabilità
comuni. Come, ad esempio, per la rottura consumata al congresso di Ancona
del 1921 tra l’Unione Anarchica Italiana e l’”Avvenire Anarchico”, il maggiore
organo degli antiorganizzatori: pur considerando l’iniziativa come “formalmente
legittima”, egli non manca di definirla politicamente “dissennata” (p.
124).
Il confronto con la Storia di Masini consente di mettere a fuoco
quello che, a mio avviso, è il pregio maggiore del libro di Di Lembo.
Masini era alla ricerca di una linea evolutiva dell’anarchismo italiano,
alla quale sacrificava sovente i frammenti di alternative marginali eppur
congeniali alla stessa comprensione. Di Lembo, se lo spazio glielo consentisse,
non smetterebbe di raccontarci degli infiniti rivoli e delle innumerevoli
storie “minime” che rendono il movimento anarchico inafferrabile alla morsa
di qualsivoglia potere e impermeabile alle facili classificazioni: rivoli
e storie che spesso racchiudono tesori di concreta utopia, che attendono
oggi d’essere riscoperti, studiati e reimmessi nel dibattito politico.
Egli pure focalizza l’attenzione su di una possibile linea evolutiva dell’anarchismo
italiano che trae origine dall’”anarchismo realizzatore” dell’ultimo Malatesta,
così felicemente sintetizzato: «1) Tutte le istituzioni
vigenti sono una risposta, sia pure in chiave di potere, a necessità
reali. Si possono quindi sostituire con successo solo avendo concrete alternative.
2) All’anarchismo non si arriva con una rivoluzione ma con un succedersi
di rivoluzioni che gradualmente approssiminino ad una società anarchica.
3) Ogni rivoluzione si avvicinerà tanto più all’ideale quanto
più gli anarchici riusciranno ad immettere soluzioni libertarie
alle necessità della società in cui vivono, da ricercare
e da sperimentare» (p. 145). A tale concezione affianca quelle
di Gigi Damiani, secondo cui gli anarchici avrebbero dovuto farsi «portatori
di lotte per la libertà. Quella libertà, in quel momento,
si traduceva concretamente nella lotta per il federalismo più ampio,
sociale, economico, politico» (p. 146), e di Camillo Berneri,
che «cercò di rompere il dualismo urbano proletariato-borghesia,
in cui si era cacciato anche l’anarchismo, ridando importanza agli strati
intermedi e a quelli popolari e contadini» e individuando il
potere dello Stato nella funzione amministrativa «che lo Stato
pretendeva di assolvere, e in verità assolveva, ma nel modo più
accentrato. La distruzione dello Stato implicava quindi l’assunzione delle
insopprimibili funzioni amministrative da parte della società dei
produttori» (p. 180). L’anarchismo insurrezionalista e classista
ottocentesco si trovò tutto d’un tratto messo alle corde. Quelle
idee fornivano infatti al comunismo antistatalista degli anarchici, emancipato
dagli influssi marxisti, una nuova base teorica e progettuale, imperniata
sull’autonomia dei liberi comuni e sull’autogestione delle fabbriche. Non
riusciranno tuttavia ad imporsi e con esse sfumerà, nel secondo
dopoguerra, gran parte della presunta evoluzione dell’anarchismo. Come
ricorda lo stesso Di Lembo, a proposito del federalismo di Berneri, «non
è che queste idee convincessero tutti né che passassero tranquillamente
… né che Berneri fosse la guida spirituale dell’anarchismo dell’epoca».
Gigi da un lato giunge a relativizzare (e umanizzare) il pensiero di giganti
come Malatesta, Damiani e Berneri, sottoponendolo alla prova dei fatti
e al giudizio impietoso della storia, dall’altro lato però lo ripropone
criticamente all’attenzione dei compagni e degli studiosi. Quanto queste
due formule, lotta di classe e lotta umana, corrispondono all’essenza stessa
dell’anarchismo? Quanta influenza hanno avuto nella storia degli anarchici
italiani? È possibile ed auspicabile una convivenza fra loro? Questi
sono nodi non solo storiografici ma culturali e politici che il movimento
anarchico esita a riconoscere e a sciogliere ancora oggi..
È quella dell’attenzione ai temi interni e alle prospettive
di sviluppo dell’anarchismo di ieri e di oggi, un’altra delle costanti
del lavoro di Di Lembo, che si stacca pertanto non solo più da Masini
ma da tutti quegli storici che tendono a relegare la storia … ai libri
di storia, e limitarne il suo uso sociale e politico, con la scusa ch’essa
sia irripetibile o che trascenda inevitabilmente in letture faziose e inattuali.
«La storia – disse Franco Della Peruta in un convegno tenutosi
a Palermo nel 1995 – non serve a niente, perché non è
maestra di vita, non riesce a far evitare gli errori che si sono compiuti
nel passato, aiuta come dice un mio amico storico a fare le parole incrociate,
questo sì, se volete, può però aiutare a dare la coscienza
della propria identità, un senso critico, ad affrontare il mondo
che ci circonda che è fatto di politica, di economia, di rapporti
sociali, con un maggiore tasso di applicazione della ragione».
Sono parole che hanno ricadute notevoli sul mestiere di storico. Inducono
tra l’altro ad abbandonare le superfici levigate e ad addentrarsi nei labirinti
del pensiero e dell’agire umano. Se ne colgono talvolta delle perle di
saggezza, come a p. 37 del nostro libro: «Le guerre, se hanno
sempre portato idee nuove e spesso di libertà, non hanno mai portato
pratiche di libertà. Come si andavano accorgendo con allarme gli
anarchici, spinta ribellistica e propensione alla delega non sembravano
in contrasto …» Oppure ispirano osservazioni critiche di notevole
spessore, come quando Di Lembo lamenta in campo anarchico l’insufficienza
di analisi e di previsione del fenomeno fascista (pp. 124-128), seppur
non comparabile con la miopia costituzionale di altri movimenti politici,
il comunista in primo luogo; e come quando indugia, divertito e indispettito
a un tempo, sui “granchi” presi da Armando Borghi di nuovo sul fascismo,
sulla rivoluzione russa, sul mito dell’unità operaia, ecc. Ma neanche
Damiani, per il quale Di Lembo nutre una trasparente simpatia, viene risparmiato:
si noti quella frase lapidaria («In realtà, a osare di
lì a qualche giorno sarà Giolitti») con la quale
liquida una lunga e retorica tirata dello stesso Damiani (pp. 85-86) che
chiamava gli anarchici, provati dal fallimento delle occupazioni, a “osare”
nuovamente, mossi da «una forza che essi stessi hanno il torto
di non voler riconoscere»(?).
Possiamo in conclusione affermare che questo libro sia privo di difetti?
Ma nemmeno per sogno. Tra le numerosissime e vistose lacune, occorre segnalare
qui quella che riguarda le vicende dell’anarchismo nel Meridione d’Italia,
che di suo già sconta una carenza di bibliografia specializzata
e di ricerche locali; e soprattutto deplorare il silenzio sugli episodi
d’incessante seppur sotterranea resistenza al fascismo da parte degli anarchici
rimasti in Italia durante il ventennio. Lacune imperdonabili, se Di Lembo
avesse avuto la pretesa di “esaurire” l’argomento e la predisposizione
mentale a farlo. Trascurabili invece per un’opera che tra i suoi principali
obiettivi, oltre a indicare un indirizzo metodologico coinvolgente e rispettoso
delle diversità, contempla quello di suscitare nuove e più
accurate indagini che un’affrettata e onnicomprensiva ricostruzione avrebbe
potuto inibire. Non è forse anche questa una scelta di campo nel
segno della lotta per la libertà?
Natale Musarra, da "A rivista anarchica", N. 284, ottobre 2002