Sulla esperienza dei preti operai due bilanci sono usciti in questi
giorni: ambedue autorevoli, ma nettamente contrari l'uno all'altro. Sul
«Venerdì» di Repubblica il bilancio negativo,
sottolienato da un titolo drastico: «Contrordine, fratelli. E il
prete operaio va in pensione», a firma di Marco Cicala. Va detto,
comunque, che il sommario è più incerto: «Entrarono
di nascosto, lottarono con i comunisti. I padroni tentarono di licenziarli,
e spesso ci riuscirono. Poi vennero i terroristi, il riflusso. E, ora,
la crisi della Fiat, gli immigrati...Davvero quella esperienza non serve
più?» Risponde , in una lunga intervista - per fortuna molto
più problematica del titolo dell'articolo - don Carlo Carlevaris,
il decano del gruppo, ora in pensione. Su Famiglia cristiana, al
contrario, il «Prete operaio resiste» ed il sommario ha toni
decisamente positivi: «Negli anni Settanta in Italia erano 300. Oggi
sono un centinaio, pronti a dare nuove forme alla loro azione. Ma ben decisi
a rimanere dove sono: sulla trincea del lavoro». L'articolo prende
lo spunto da un seminario di studi che si è tenuto recentemente
a Torino. Nei prossimi giorni, intanto, si terrà anche un convegno
europeo a Parigi, città dove l'esperienza dei preti operai era nata
nell'immediato dopoguerra, sotto la spinta dell'arcivescovo cardinale Suhard.
Quale dei due testi ha ragione? Direi quello positivo, anche se lo
slancio non è più quello dei primi tempi, anche se l'età
media è ormai elevata e nuove reclute scarseggiano.
Ma più delle cifre, contano la storia e il valore dell'esperienza.
La storia è nota. Si tratta di una esperienza veramente rivoluzionaria,
prima benedetta dalla gerarchia ecclesiastica che vi vedeva la possibilità
di penetrare nel mondo operaio fortemente secolarizzato; poi contestata
dalla stessa gerarchia che la trovava , da una parte, inutile agli effetti
di una evangelizzazione delle fabbriche, dall'altra rischiosa perché
troppo «rossa».
Comunque nessuno nega che si è trattato di una delle esperienze
più interessanti , prima e dopo il concilio Vaticano II. I preti
operai hanno messo in discussione la stessa figura del prete nonché
il valore del lavoro anche manuale. Un vero pugno nello stomaco per una
chiesa abituata alla figura di un prete «ridotto» a semplice
amministratore dei sacramenti e della parrocchia e abitata soprattutto,
se non esclusivamente, dal mondo, dalla cultura e dalla società
borghesi.
Nessuna meraviglia se oggi questa difficile esperienza, ostile a tutti
i grandi poteri dominanti, sia quelli laici che quelli ecclesiastici, sia
in crisi. Lo sono tutte o quasi le esperienze che hanno cercato di rinnovare
la presenza cristiana nella società. Hanno cercato e cercano, sia
pure con difficoltà maggiori di quelle di ieri. Non a caso la destra
sta vincendo quasi dappertutto; non a caso uno degli impegni prioritari
dei preti operai e dei loro incontri è quello per la pace.
Per saperne di più e con maggiore partecipazione si possono
utilmente leggere i due recenti volumi di Marta Margotti dell'università
di Torino e soprattutto ci si può abbonare alla rivista trimestrale
Preti operai (67030, Torre dei Nolfi, Aquila) che rappresenta, a
tutt'oggi, uno dei più preziosi laboratori in cui si cerca di costruire
un cristianesimo convincente. Si pensi al tema di uno dei più recenti
incontri dei preti operai: «Vivere il tempo oggi è sapersi
misurare con l'ultimum che non è il dopo della vita ma il suo punto
di arrivo, cioè l'oggi cosciente e responsabile».