Due giorni dopo la presentazione di questo libro alla festa nazionale
di Liberazione a Roma, avvenuta il 15 settembre, Vanessa, una giovane studentessa
liceale, che aveva partecipato al dibattito, scriveva al quotidiano del
PRC che non aveva avuto il coraggio di porre le tante domande che aveva
dentro, e lamentava di non possedere ancora strumenti sufficienti “per
comprendere la complessa storia del ‘900”. Di una cosa però era
certa: sentiva di ammirare l’autore del libro e Alessandro Curzi che assieme
ad altri lo aveva presentato e discusso, perché, diceva, “voi sì
che avete vissuto” (lettera a Liberazione, 17 settembre 2002).
Che un libro di memoria storica sappia suscitare domande e interrogativi,
soprattutto nei giovani, è di per sé un ottimo risultato
che dipende anche dalle capacità narrative di chi espone. In questo
caso l’autore racconta la sua “vita politica” che dura ormai da più
di sessant’anni, lo fa utilizzando la partecipazione diretta agli eventi
narrati e il quadro interpretativo che gli è stato offerto -e che
ha contribuito lui stesso a costituire- rappresentato da una corrente storica
del movimento operaio: la Quarta Internazionale, organizzazione alla quale
ha aderito nel lontano 1947. Ad essa va riconosciuto un merito in assoluto,
quello di aver affermato che il marxismo, le organizzazioni del movimento
operaio, non possono rivendicare una continuità con lo stalinismo.
Oggi, forse più di una volta, può sembrare una banalità,
ma è una banalità gigantesca, che bisogna ridire perché
deve diventare senso comune.
Come ha scritto nella prefazione il segretario del PRC Fausto Bertinotti,
Maitan ci costringe ad una “splendida cavalcata attraverso sessant’anni
di storia del movimento operaio in Italia e in Europa”; una storia narrata
con sobrietà, equilibrio, mai demonizzante e sprezzante verso avversari
e critici delle sue posizioni, tesa a ricostruire, con scrupolo, contesti,
situazione, analisi politiche coeve al periodo considerato e riproposto
nella forma di memoria. In questo senso, più che come opera memorialistica
il libro si presenta come il lavoro di uno storico militante; una definizione,
quest’ultima, niente affatto nuova, già presente nella riflessione
dello storico delle guerre puniche Polibio, che sosteneva il diritto di
chi ha “visto”, inteso come partecipazione agli avvenimenti di cui si parla,
a raccontare e rielaborare i fatti accaduti, poiché poteva avvalersi
di un punto di vista migliore e più esauriente di chi li desumeva
solo dalla lettura dei testi e delle “carte”. Non si devono trascurare
le “carte” e i fatti (e non è il caso del nostro autore), ma “carte”
e fatti non parlano da soli, devono essere interrogati. E chi meglio di
quelli che hanno partecipato agli eventi possono formulare le domande?
In una ricostruzione storica chi fa le domande ha almeno la stessa importanza
di chi da le risposte, perché ricordare gli eventi concomitanti
ai fatti spinge chi racconta a precisare i singoli particolari degli avvenimenti.
Quella di Maitan è memoria che non si fida sempre e solo di
se stessa, ma va a riconsiderare, a rileggere, a riprendere, cimentandosi
con l’obiettivo di arrivare ad una considerazione storica, secondo un procedimento,
tipico della storiografia, che tende, a differenza della memoria, a non
assolutizzare mai i risultati, ma a relativizzarli, perché la storia
è sovente delegittimazione del passato, continua rilettura di ciò
che sembrava definitivamente acquisito. Così, spesso spiega, analizza,
riconsidera, ripropone, narra la storia ponendosi egli stesso dentro la
narrazione e non come voce narrante esterna.
Dalla Seconda Guerra Mondiale, alla caduta di Mussolini, alla Resistenza,
fino ai tempi recentissimi del movimento dei movimenti, dall’incontro con
Concetto Marchesi all’università di Padova, alla presa di coscienza
politica antifascista, alla militanza nel rinato Partito Socialista, i
primi comizi, i primi “tormenti sentimentali”, fino alla nascita del nipote,
la tensione del raccontare resta viva, costringe alla lettura delle settecento
e più pagine. Tantissime, evidentemente, sono state le persone conosciute
e incontrate nel percorso dall’autore, di loro traccia ritratti sobri,
leggeri ma consistenti, senza mai lasciarsi rivincere dalla vis polemica
che a volte ci fu, com’è inevitabile e avviene nel momento in cui
si manifestano contrasti e vedute politiche differenti.
Se nella storia resta in dubbio il tema dei corsi e dei ricorsi storici,
nella vita delle persone, soprattutto se lunga e intensa come in questo
caso, i ricorsi sono inevitabili. Divertenti, se il termine è consentito,
e densi di significato, i reincontri che narra nel “calderone” di Rifondazione
comunista, e non solo, con compagni di percorsi più o meno uguali,
differenti, contrastanti, avvenuti nei decenni precedenti. Così
poteva capitare, e all’autore è capitato, di incrociare Bertinotti
che gli diceva: “Ti devo ringraziare perché hai contribuito alla
mia formazione antistaliniana e antitogliattiana” (p. 633). Emerge una
grande mappatura di percorsi individuali e collettivi della sinistra italiana
dentro la quale egli inserisce anche la storia dell’organizzazione politica
di cui ha fatto parte - i Gruppi Comunisti Rivoluzionari (poi Lega Comunista
Rivoluzionaria), prima di confluire in Democrazia Proletaria e poi in Rifondazione
Comunista- e il giornale Bandiera Rossa di cui è stato uno dei fondatori
nel 1950.
Una storia densa la sua, una vita spessa si potrebbe dire, capace di
suscitare l’invidia della giovane Vanessa citata prima la quale dice, paragonando
il suo tempo a quel passato, “voi sì che avete vissuto”, denunciando
un presente sciapo, confuso, incerto, debole, tipico per altro di una condizione
esistenziale giovanile riscontrata in più di un’inchiesta sociologica,
frutto d’eventi storici accaduti nell’ultimo ventennio che hanno profondamente
cambiato quel mondo e quel contesto nel quale si è svolto una parte
consistente del percorso di Maitan.
Come vanno letti e compresi quei fatti, com’è possibile aiutare
la giovane studentessa che vuole capire il ‘900? Mettendo la storia al
lavoro e cioè non limitandosi a posizioni di pigrizia storiografica
e filosofica tipici di chi sostiene che tutto ciò che è accaduto
doveva accadere, sprofondando in una sorta di determinismo fatalistico.
Ancora e sempre lo storico ha il dovere di interrogare fatti e contesti,
di ricostruire situazioni, di interrogarle circa le potenzialità
esprimibili e poi di spiegare perché, tra le diverse opzioni presenti
al momento, si è affermata una scelta e non un’altra.
Insomma, mettere al lavoro la storia, renderla utile alla vita e all’agire
politico d’oggi, significa tener conto che occorre partire da un postulato
pedagogico-educativo di fondo: “la storia, per dirla col Bertinotti dell’introduzione,
si fa anche con i se e con i ma, e non è vero che esista un determinismo
storico che predetermina le scelte concrete”. In questa scelta sta la forza
del libro: i fatti, la politica dei partiti e delle organizzazioni del
movimento operaio sono sempre interrogati e rapportati alla cornice generale,
e le varie scelte sono sempre riferite, spiegate e giudicate riferendosi
alle potenzialità del periodo.
D’altronde, proprio quelli che sostengono l’impossibilità di
fare storia con i “se” e i “ma”, sono i primi a farne un uso apocalittico
e scorretto. Per dimostrare che una scelta era l’unica possibile in quel
momento, sono costretti ad ipotizzare, esagerandoli negativamente, scenari
irrealizzabili, disastrosi, spaventosi. Spesso è accaduto, infatti,
che scelte sbagliate e scorrette, le peggiori, fossero tramutate nel meglio
possibile in nome del “meno peggio”, termine usatissimo per giustificare
recentissimi compromessi e cedimenti da parte dell’Ulivo e delle forze
che lo compongono. Quest’ultima allusiva considerazione ci porta a concludere
che la strada percorsa da Maitan, pur cavalcando sessant’anni di storia,
richiama l’attualità. Un libro da leggere, da presentare, da discutere,
soprattutto assieme alle “vanesse” che popolano il mondo dei giovani comunisti
e non solo.
Diego Giachetti