Dimenticare è legittimo ma, forse, per dimenticare è necessario
prima ricordare. Se non si ricorda si cancella, si rimuove, ma non si dimentica,
nel senso che il passato non diventa memoria, ma rimozione, non diventa
storia, ma vissuto personale racchiuso dentro forme corporee, sociali e
di lavoro che sono, nel frattempo, cambiate, com’è cambiato il mondo
circostante. Scrive bene e ad effetto in merito Lidia Ravera mettendo in
evidenza il rapporto che i protagonisti hanno col proprio tempo trascorso:
“Il passato era un grumo di felicità indigesta, mai metabolizzato,
mai defecato”. Questa considerazione è necessaria per introdurre
il romanzo ambientato in una Torino reale, molto reale, percorsa da ricordi
di vecchie strade percorse assieme, di luoghi vissuti collettivamente,
case, bar, trattorie, piazze, letti, amori frettolosi e amicizie facilmente
sessualizzabili. Un mondo passato, dopo il quale, scrive, gli anni si sono
raggrumati formando “masse molli di giorni senza cadenza, senza contorni.
C’è il passato che è la giovinezza, e il presente che è
la non giovinezza e i due tempi si specchiano l’uno nell’altro in un gioco
di aporie maligne”.
Una Torino nella quale giovani protagonisti di Lotta Continua si mossero
nei primissimi anni settanta, provenienti dai “nidi” dell’università
e delle medie superiori per incontrarsi con altri giovani operai, provenienti
da “nidi” soprattutto meridionali. Due mondi, diversi per cultura, esperienza,
formazione, gusti, tradizioni, stili di vita, si fusero dando vita alla
breve stagione delle lotte operaie, fuori e contro i sindacati e le istituzioni.
Il trauma per la città fu notevole e segnò anche la vita
di chi tale choc lo aveva provocato. Quel mondo, quella comunità
d’intenti, di sentire, di relazioni affettive, sessuali e politiche, si
ruppe nella metà degli anni Settanta e ogni gruppo sociale riprese
la sua strada.
Trent’anni dopo, immagina il romanzo, quel mondo precipita nella vita
di alcuni protagonisti, a causa del rapimento di un ex leader del
movimento torinese, che nel frattempo ha fatto fortuna, messo in atto da
un ex operaio, proveniente dal meridione, diventato un’avanguardia delle
lotte alla Fiat nel 1969. Un ex operaio che, finito fuori dalla fabbrica
dopo la sconfitta dell’autunno del 1980, vive ossessionato dai ricordi
di quella stagione di lotte e dal “tradimento” che, secondo lui, hanno
perpetrato i “capi”, soprattutto dopo che si sono ritirati dalla lotta
politica e hanno sciolto Lotta Continua. Non è solo Lotta Continua
che “ha tradito” a dar fastidio e a segnare ulteriormente la via verso
la pazzia del protagonista operaio, è anche l’ostentata e “grassa
indifferenza”, della città verso quella stagione di lotte; una città
che, dopo gli anni Settanta, è scivolata nei “suoi rituali
di capitalina degradata, perla della padania, sabauda e solenne”.
Il rapimento è il gesto disperato di un’ossessione e di un rancore
covati per anni, il tentativo di riprendere con la forza, questa volta,
quel dialogo che in precedenza accomunò il giovane e ruvido operaio
meridionale e il giovane intellettuale in formazione proveniente da una
buona e ricca famiglia. Il fatto costringe o aiuta alcuni protagonisti
di quella stagione a reincontrarsi. Si tratta soprattutto di ex studenti
e studentesse cresciuti, invecchiati, “piazzati” in qualche modo dentro
la vita sociale e produttiva torinese. Una vita mediocre, come la città,
nella quale chi è rimasto “è un fallito. Non si fa carriera
politica a Torino, al massimo diventi assessore, consigliere regionale”,
osserva fredda e cinica la voce narrante. Prima era una “città fabbrica”,
aveva una sua identità e, per quanto discutibile, criticabile, una
sua vocazione; ora che la fabbrica si è ridotta, “è una città
senza vocazione”.
Sparite le vocazioni, le progettualità, gli entusiasmi giovanili
e i rapimenti amicali della comunità studentesca che percorreva
le strade e volantinava davanti ai cancelli della Fiat, i sopravvissuti,
quando s’incontrano, si chiedono quale senso abbia “procedere con la vita
oltre l’età dell’amore e della rabbia”, e ciò che loro rimane
da dire e da ricordare è di una tristezza infinita. Non dovendo
più raggiungere nessuna meta, “nessun ricovero, nessun premio” il
passato diventa, nell’ipotesi più estrema, l’aggiornamento della
lista dei conoscenti morti, come fa uno dei protagonisti, Massimo il quale,
durante una cena “enumera due morti di cancro, una cirrosi degenerata e
due suicidi”.
Passato e presente si misurano poi sul corpo delle persone. Il ricordo
dei corpi giovani, le scarpette da ginnastica, i pantaloni a coste di velluto,
gli eskimi, messi a confronto con l’appesantimento dei chili, con le forme
che si fanno a dir poco rotondine, racchiuse in abiti e scarpe tipiche
del vestire da cinquantenni. La bellezza corporea ancora attrae e concede
a due protagonisti che si reincontrano una notte di sesso, calmo e sereno,
in nome di quella che si chiamava la sessualizzazione dei rapporti di amicizia.
Tuttavia, passata la frenesia del congiungimento, i segni corporei del
tempo passato appaiono evidenti e l’uomo si trova ad “insistere con lo
sguardo sulle défaillance dell’epidermide [della sua partner], sfiora
le labbra da cui partono minuscole rughe a raggiera”. Finito il tempo storico,
come dimensione e senso della vita, non resta che il tempo corporeo.
L’autrice ha colto bene la realtà odierna torinese dedicando
buona parte del romanzo al racconto della vita, presente e passata, dei
protagonisti provenienti dalla comunità studentesca, dal movimento,
da Lotta Continua, lasciando in ombra l’altra metà, cioè
la componente operaia che è stata, assieme a loro, altrettanto partecipe
di quella stagione. Così facendo il romanzo contribuisce a denunciare
un vuoto, una mancanza di memoria, un’assenza che sono reali in una Torino
che non vuole e non ha la possibilità, in questo momento, di ricostruire
le storie delle stagioni della lotta operaia. Quest’altra metà resta
nell’ombra, emerge solo con la forza e la rabbia ormai diventata pazzia,
dell’operaio massa meridionale, trasportato dall’immigrazione in città,
innalzato a avanguardia di lotta, chiamato ai compiti immani e grandi della
centralità operaia, della classe operaia che deve dirigere tutto,
proteso alla conquista del potere operaio, attraverso la lotta continua.
Bagliori e lampi di un tempo che non c’è più e al quale neanche
fisicamente, nel romanzo, sono sopravvissuti i protagonisti. Semplicemente,
a parte quello che rapisce l’ex esponente di Lotta Continua e si ostina
a girare su una vecchia Renault rossa, gli altri operai di Mirafiori non
ci sono, non si vedono, non s’incontrano più, sono scomparsi.