Franco Serantini, il tempo della vita è sempre politico.
«S'era tutti sovversivi». Il documentario di Giacomo Verde,
distribuito da «A-rivista anarchica», racconta la storia del
ragazzo ucciso dalla polizia a Pisa nel 1970.
«Insomma, s'era tutti sovversivi, rispetto all'Italia d'allora»:
ha fatto bene il regista Giacomo Verde a scegliere questa dichiarazione
d'intenti, fatta da un'amica di Franco Serantini, per dare il titolo al
video che racconta la vita e la morte dell'anarchico ucciso dalla polizia
a Pisa, trent'anni fa. Il documentario ci racconta i tanti modi di essere
sovversivi, dalla vita quotidiana - la musica, i consumi, le letture -
all'impegno politico - che allora si misurava sulla strada come nelle sedi,
in un impegno totale che mescolava pratica pubblica e vita privata, senza
far diventare una professione la prima e senza alienare gli interessi personali
della seconda. In un'ora di testimonianze raccolte oggi e documenti d'epoca
scorre un'Italia che appare mille anni lontana da quella odierna, anche
se pure emergono i fili di una continuità per capire come tutto
sia cambiato per non cambiare nulla nel potere, nella violenza, nell'oppressione.
E persino quei ragazzi invecchiati di trent'anni che raccontano il loro
essere sovversivi e il «loro Franco», alla fine, non sono,
nei desideri e nei problemi, così distanti dai loro omologhi del
XXI° secolo che si ritrovano a Seattle come a Genova, in una fabbrica
minacciata dai licenziamenti come in un call-center ad alto tasso d'alienazione;
fascino e mistero della storia e della sua memoria.
Il contesto in cui vive e muore Franco Serantini è quello di
un'Italia che si arrovella negli squilibri sociali e nella modernità
che si porta dentro la mina del proprio peccato originario, quello di una
classe dirigente gretta, bigotta, che diventa feroce quando si sente tremare
la terra sotto i piedi. Un'intera generazione - con tutte le fratture culturali
e politiche che l'attraversavano - cercò di praticare la sovversione
- anche nella vita quotidiana - e di preparare il cambiamento (alcuni la
chiamavano rivoluzione, altri riforma, ma erano quasi solo delle sfumature):
le venne impedito, con la forza e lì iniziarono le tragedie, le
scelte suicide, le sconfitte. Che furono personali e collettive.
Anche Serantini scelse il suo modo d'essere sovversivo, quello di un
«figlio di nessuno», di un ragazzo nato a Cagliari e abbandonato
in fasce al brefotrofio, adottato all'età di due anni per poi ritornare
in un'istituto dopo la morte della nuova madre; e, poi, il riformatorio,
in un regime di semilibertà che gli lascia il tempo solo per lo
studio. L'incontro con la politica - prima Lotta continua, poi gli anarchici
- avviene quasi naturalmente, nell'Italia di allora. E inizia una nuova
vita, fatta di discussioni, della «sede» dove ci si ritrova
sempre, del tempo scandito dai ritmi del movimento: riunioni, volantini,
cortei, assemblee. L'incontro con gli operai della Saint Gobain minacciati
di licenziamento, i «mercatini rossi» al quartiere Cep per
dimostrare che i generi alimentari possono costare molto meno di quanto
li fa pagare il supermercato o il bottegaio: ogni cosa fa dire che il mercato
è una truffa.
Corse frenetiche, senza respiro. Tutto il tempo della vita è
tempo della politica, perché tutta la vita è politica, anche
gli spazi privati, quelli riempiti dalle letture per capire, dai confronti
con le vecchie generazioni, a Pisa con la «memoria anarchica»,
lì ancora fortissima. E su questo le mannaie dello stato, l'esplosione
della strategia della tensione, la perdita dell'innocenza, alla Bussola
dove la polizia spara per «difendere il capodanno dei ricchi»,
come a piazza Fontana. Agire propositivo e agire oppositivo si mescolano
e costruiscono una cultura: vendere le verdure nei quartieri di periferia,
occupare le case o diffondere il proprio giornale sono in continuità
con uno sciopero, la protesta contro la strage di stato, gli scontri con
i fascisti. È un fiume unico e inarrestabile - o, almeno, così
sembrava essere - che solo a tratti s'interrompe, quando cala addosso al
movimento la violenza dello stato. Quella che stronca Serantini. Il 5 maggio
del 1972 a Pisa arriva il missino Giuseppe Niccolai, per un comizio elettorale.
Lotta continua e gli anarchici organizzano la contestazione - «non
deve parlare» - una delle tante degli anni `70. Ma questa volta non
è come le altre: sul Lungarno la polizia carica, Franco Serantini
si trova isolato, cade sotto le botte dei celerini, lo lasciano lì
a terra, come uno straccio vecchio. Poi lo portano via, in questura, al
carcere don Bosco. Viene interrogato, dice di star male, ma il giudice
non considera «serio» quel suo malessere. Cade in coma, ma
rimane abbandonato nella sua cella e quando lo portano al pronto soccorso
del carcere, muore quasi subito. È il 7 maggio `72. Due giorni dopo
viene sepolto.
Le indagini sulla sua morte non daranno alcun esito, nessuno verrà
giudicato né condannato. Corrado Stajano scriverà un bel
libro (Il sovversivo, Einaudi), la memoria di Serantini rimarrà
viva a lungo e non solo a Pisa; almeno fino a quando il buio degli anni
`80 cercerà di avvolgere tutto e rimuovere quel modo d'essere, quello
di un ragazzo mite, un po' miope, studente e lavoratore precario, donatore
di sangue, anarchico: «figlio di nessuno», come dice la lapide
che lo ricorda. S'era tutti sovversivi, il bel video di Giacomo
Verde - prodotto e distribuito dalla Biblioteca Franco Serantini e da «A-rivista
anarchica» (tel.02/2896627, e-mail arivista@tin.it),
15 euro - ne raccoglie la memoria e aiuta a capire il suo tempo. Senza
nostalgia, per comprendere le ricchezze stroncate assieme ai limiti, alle
ingenuità e agli errori che altri hanno saputo ben usare.
Giovanna Boursier, "il manifesto", 8 gennaio 2003